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Fino a poco tempo fa, il gaming e la gamification erano osannati come la grande innovazione del mondo culturale e turistico: non c’era convegno o tavola rotonda che non annoverasse almeno un intervento legato al tema. Poi, così come accade con quasi tutti i “cavalli di battaglia” dei convegni, solo tante riflessioni, e pochissime implementazioni.

Eppure oggi più che mai sarebbe utile avviare una riflessione sul ruolo del gaming nel processo di fruizione della cultura e del territorio.

Più precisamente sarebbe utile avviare una riflessione “seria e strutturale”, caratteristiche che dunque escludono l’uso del gaming come veicolo di comunicazione per presentarsi sufficientemente cool da essere pubblicati sulle riviste di settore.

Ora che, per fortuna, il giochino come semplice strumento di comunicazione non fa più notizia, è possibile riflettere sulle reali potenzialità di questi strumenti e comprendere come sfruttarli per poter agevolare e favorire un progressivo rientro alla normalità o, quantomeno, integrare una parte di normalità perduta.

Una delle più grandi opportunità che la tecnologia che sta alla base del gaming ci offre, infatti, è quella di ripensare il “territorio” applicando le logiche che sono tipiche dell’online al mondo offline.

Logiche, riflessioni. Non sono necessari progetti roboanti e budget stellari. Sono necessarie piccole idee, che permettano di realizzare una nuova “realtà aumentata” dei nostri territori.

La realtà aumentata cui siamo abituati a pensare è infatti una serie di tecnologie che puntano ad agire su una percezione “estesa” del mondo che ci circonda agendo prevalentemente attraverso la creazione di stimoli sensoriali. Ma lo stimolo sensoriale non è l’unica leva per estendere le nostre percezioni. Lo sono altrettanto la narrazione, il contesto, le “informazioni” di cui disponiamo.

È pacifico ammettere che un esperto di archeologia percepirà in modo differente un’area archeologica rispetto ad una persona che non ha mai interagito con qualcosa realizzata prima del 1980.

In tal caso, quindi, è il bagaglio di conoscenze, di informazioni, di sensazioni trascorse, di aspettative e di emozioni vissute ad aumentare il significato, l’interpretazione la “significatività” degli stimoli visivi provenienti da quelle “quattro pietre messe a terra”.

Nulla di nuovo, certo. È per questo che esistono i libri, le didascalie, i pannelli illustrativi, le audioguide, le video guide, le app, i sensori beacon, ecc.

Tutti questi strumenti, tuttavia, rappresentano supporti “esperienziali” agenti sulla principale esigenza nel mondo ante-Covid: il contenuto. È intorno ad esso che tali elementi trovano radice comune e ragion d’essere.

Oggi c’è un limite molto più forte che bisogna andare a colmare: la partecipazione.

Oggi abbiamo tecnologie per condividere, abbiamo strumenti per comunicare. Meno comuni sono invece gli strumenti che abbiamo per “partecipare”, vale a dire “prendere parte”.

La partecipazione, dunque, intesa come quella sensazione personale che ognuno di noi ha provato nel vedere, in un concerto, le nostre stesse emozioni riflesse negli sguardi e nelle espressioni degli altri, lo stesso stupore di fronte ad un dipinto, la risata che esplode in teatro.

Non è lo stesso che “parlare”, “scrivere”, condividere”. Non è necessario “interagire”.

Partecipavano coloro che si identificavano nello stesso abbigliamento (pardon, oggi si dice outfit): il punk, gli emo. Partecipavano coloro che giocavano ai Pokemon mentre, “smartphone alla mano” erano alla ricerca di un “animaletto selvatico”. Si riconoscevano. E questo creava una intima e mutua “alleanza”. Si era in presenza di un proprio “simile”.

Neanche queste riflessioni sono nuove: i cosiddetti alternate reality game hanno almeno dieci anni alle spalle.

Ciò che potrebbe essere nuovo, oggi, sarebbero le ragioni che portano alla loro creazione: riprendere logiche e tecniche ad oggi disponibili (anche a buon mercato) per una nuova costruzione di “senso” non solo per i turisti, ma anche e soprattutto per i cittadini.

Fornire un elemento in grado di arricchire l’esperienza di viaggio non solo attraverso i contenuti, ma anche (se non soprattutto) attraverso la “partecipazione”.

Non è per forza necessario dover “trovare” qualcosa di “nuovo”. Spesso le cose che servono esistono già. Basta solo capire come usarle per rispondere ad un bisogno culturale.

Arriveranno gli ologrammi. E avranno il loro posto nei trend. Intanto, però, iniziamo a “riflettere” su come poter sfruttare al meglio gli strumenti che abbiamo.

Photo by Tobias on Unsplash

Stefano Monti

Partner Monti&Taft, insegna Management delle Organizzazioni Culturali alla Pontificia Università Gregoriana. Con Monti&Taft è attivo in Italia e all'estero nelle attività di management, advisory, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di un decennio fornisce competenze a regioni, province, comuni, sovrintendenze e ha partecipato a numerose commissioni parlamentari. Si occupa inoltre di mobilità, turismo, riqualificazione urbana attraverso la cultura. È autore e curatore di numerosi libri e frequente relatore di convegni. Il suo obiettivo è applicare logiche di investimento al comparto culturale e turistico.

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Stefano Monti

Partner Monti&Taft, insegna Management delle Organizzazioni Culturali alla Pontificia Università Gregoriana. Con Monti&Taft è attivo in Italia e all'estero nelle attività di management, advisory, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di un decennio fornisce competenze a regioni, province, comuni, sovrintendenze e ha partecipato a numerose commissioni parlamentari. Si occupa inoltre di mobilità, turismo, riqualificazione urbana attraverso la cultura. È autore e curatore di numerosi libri e frequente relatore di convegni. Il suo obiettivo è applicare logiche di investimento al comparto culturale e turistico.

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