La fatica dietro il sorriso: il burnout nell’hospitality e perché non possiamo più far finta di niente.
In ogni hotel, ristorante o struttura turistica, c’è un angolo nascosto dove qualcuno va a respirare. Può essere un retrobottega, un ripostiglio, o il classico bidone dell’umido sul retro, come nelle serie TV statunitensi. Luoghi in cui si sussurrano le frustrazioni della giornata, si versano lacrime rapide, o si cerca semplicemente un momento di tregua. Come quel celebre “ci vediamo al cassonetto in cinque minuti” che un executive chef americano raccontava come rito segreto per affrontare giornate emotivamente esplosive.
La verità è che il nostro settore non è rotto. È esausto. E troppo spesso ci si chiede di funzionare come se nulla fosse, come se fosse sempre e comunque ora di andare in scena.
Perché sì, lavorare nell’hospitality è spesso un atto teatrale. Una recita calibrata di sorrisi, attenzione, controllo emotivo. Lo imparai anni fa, durante una formazione di una settimana pre-impiego firmata Disney: “ospiti, non clienti”; “palco, non sala”. Era uno dei primi insegnamenti, e a suo modo rivoluzionario. Ma perché funzioni, questo approccio richiede consapevolezza, allenamento, spazi di decompressione. E invece, troppo spesso, pretendiamo performance da standing ovation senza neanche offrire le condizioni minime per le prove generali.
Burnout quotidiano: il problema sommerso dell’hospitality
Il burnout non è più un’eccezione, è diventato parte integrante del paesaggio professionale. Secondo i dati di Axonify, già nel 2024 il 47% dei manager del settore hospitality negli Stati Uniti dichiarava di sentirsi “bruciato”, e il 70% di aver raccolto segnali evidenti di malessere tra i membri del proprio team. Il problema non è solo quantitativo. È relazionale. È strutturale.
E se pensate che in Italia le cose vadano meglio, basti dire che il nostro settore ha registrato, nel 2023, un turnover del personale vicino al 40% (fonte: FIPE-Confcommercio). Più che una rotazione, è un vortice.
Il cliente non sempre ha ragione
Il cliente non sempre ha ragione, sacrosanto (per me), ma spesso è il primo a scaricare tensione.
I nostri collaboratori si muovono ogni giorno sul filo dell’equilibrio emotivo. Da una parte, turni lunghi, scarse risorse, richieste logistiche che sembrano sempre aumentare. Dall’altra, ospiti spesso più fragili, più ansiosi, più aggressivi. Secondo Workhuman, quasi il 40% del personale hospitality subisce comportamenti ostili da parte della clientela almeno una volta al giorno. Questo logora. Questo si somma. Questo non è più sostenibile.
Il burnout non si alimenta solo con i carichi di lavoro, ma con lo sfinimento emotivo: essere sempre disponibili, sempre sorridenti, sempre pronti ad assorbire. Ma nessuno è una spugna infinita e per renderlo “immune” occorre una formazione dedicata.
Il burnout nell’hospitality: sotto pressione anche chi sta al timone
E noi? Noi che coordiniamo, gestiamo, accogliamo, decidiamo, formiamo? Siamo messi meglio? No.
Uno studio di Hospitality Action nel Regno Unito indica che oltre il 60% dei titolari e manager ha vissuto almeno un episodio di burnout nel 2023. In Italia, Federalberghi riporta che 7 albergatori su 10 si sentono più stressati oggi rispetto a cinque anni fa. E tra costi fissi, carenza di personale, incertezza normativa, gestione delle recensioni, rincari energetici, è difficile trovare un giorno in cui non si cerchi – disperatamente – di rimanere a galla.
Cultura non è un bonus. È un pilastro.
Spesso si parla di “cultura aziendale” come fosse un gadget opzionale. Una bella lavagna in reception, una frase motivazionale sulla bacheca del personale. Ma la cultura, quella vera, si costruisce nei piccoli gesti quotidiani. È fatta di pause garantite, turni pensati con rispetto, ascolto autentico. È formazione continua, promozione interna, cura della comunicazione. È dare valore umano al lavoro, non solo efficienza.
I pochi che riescono a farlo davvero non solo trattengono talento, ma creano ambienti capaci di resistere, adattarsi, fiorire. Su questo, vi consiglio questa chiacchierata tra Riccardo Haupt e Francesca Rizzi, CEO di Jointly.
Takeaway (non richiesti ma necessari) per hotel e operatori del turismo:
- Diamo dignità al concetto di benessere organizzativo: non è una moda HR, è una priorità gestionale.
- Investiamo nella salute mentale, nostra e dei nostri collaboratori. Anche una singola giornata può fare la differenza.
- Costruiamo una leadership più umana: sapere ascoltare è oggi più importante che saper vendere (e aiuta a vendersi meglio).
- Usciamo dalla retorica del sacrificio: non siamo eroi silenziosi, siamo professionisti. E meritiamo di lavorare in ambienti che non ci consumino.
- Ricordiamoci che chi lavora felice fa lavorare meglio tutti – anche il business.
Se vogliamo che i nostri hotel, ristoranti e destinazioni restino luoghi accoglienti per chi viaggia… allora devono diventarlo anche per chi ogni giorno li fa vivere. Non tra un cassonetto e una pausa rubata, ma in un contesto che riconosce la fatica e rispetta le persone.
Perché la vera ospitalità comincia da dentro.
Fonti:
- Axonify Hospitality Study 2024 – axonify.com
- Workhuman Report on Customer Hostility – hrdive.com
- UMass Amherst on Customer Incivility and Worker Mental Health – umass.edu
- Burnout and Job Leaving in Hotel Workers – PMC article
- Hospitality Action Survey on Mental Health – instituteofhospitality.org
- FIPE-Confcommercio dati turnover 2023 – Report di settore (consultabile su fipe.it)