Ricordo diversi anni fa la particolare arrabbiatura di alcuni contadini olivicoltori quando si parlava della reclame (vedi minuto 1:41 del video) dell’olio Carapelli nella quale perfino dei bambini coglievano dagli alberi d’olivo bottiglie d’olio bell’e pronto. Sostenevano gli agricoltori che trasmettere una “raccolta dell’olio” così semplice e veloce avrebbe sminuito la loro fatica e alimentato la percezione di una facilità che avrebbe spinto il prezzo al ribasso. Ecco, una serie di accadimenti mi ha portato ad immaginare che forse il tutto bello, tutto facile della narrazione del lavoro dell’ospitalità e della ristorazione che passa attraverso tv e social media ha di molto svilito la percezione del lavoro alberghiero in particolare, ma anche nella ristorazione.
E’ sempre più evidente, in particolare in Italia, il divario tra il prezzo che il turista/viaggiatore è disposto a pagare in relazione a quanto pretende. E’ ormai difficile immaginare quanti sono i fattori che si sommano nella produzione di servizi in campo alberghiero e ristorativo, forse anche in altri settori.
Sarebbe necessario, a mio avviso, iniziare a trasmettere il valore (economico) in rapporto a valori (ideali) che un’azienda persegue. Emblematica è la risposta del gestore del bar ad una recensione negativa che, come evidenzia Metro elenca tutti i costi sopportati per mettere in piedi il servizio reso alla cliente che riteneva inopportuna una tariffa.
Mi piacerebbe molto che sparissero dalla tv i lustrini delle “cucine da incubo” dove in quattro e quattr’otto si fanno apparire economici e gestibili in un’oretta processi aziendali che meriterebbero mesi, oppure ricette realizzate in cinque minuti in reparti così sterili da far apparire la cucina un mondo dove sbucciare patate, pulire cozze o strusciare per terra siano discipline ormai scomparse. Mi piacerebbe che un turista, di quelli che adesso sono super informati, sia in grado di capire se una tariffa vantaggiosa dipende da un’attività capace di mettere in piedi processi che salvano valore per l’imprenditore, il dipendente e il turista, oppure se la tariffa stracciata è frutto di pratiche illegali, norme di sicurezza eluse, fiscalità opzionale, riciclaggio, sfruttamento, shadow economy.
Mi piacerebbe che il turista, che ormai gode di una “piena conoscenza” delle dinamiche tariffarie del settore, conoscesse anche i sacrifici che devono fare i ragazzi di cucina fin dai primi anni della scuola alberghiera piuttosto che il nome dell’ultimo vincitore di Masterchef.
Vorrei che ogni volta che uno strepitoso blogger a caccia di affiliazioni economiche titola “Tre notti in Portogallo a 50 Euro compreso il volo” vada offline per l’eternità perché non so dove, ma di sicuro da qualche parte c’è uno schiavo o un imbecille che ci casca. Vorrei che ogni volta una reclame di un metamotore fa percepire che con 20 o 50 euro ci si va in un 18 stelle e che trattasi di marketing innovativo una paresi ai polpastrelli colpisse chi carica sui channel manager quelle tariffe, per giunta commissionabili. Vorrei che il cliente che vuol fare colazione con brioches fatte a mano, macedonie di frutta fresche con caffé, cappuccino e uova e affettati con meno di 5 euro si ingolfasse di brioches surgelate da 7 centesimi per poi essere colto da una dissenteria senza pari. Vorrei che un turista sapesse che se vuole una carta dei vini di una certa qualità e varietà il ricarico obbligatoriamente deve essere, per un giusto ristoro del gestore in ordine con il fisco, tra le due e le tre volte altrimenti non rientra neanche per l’immobilizzazione economica di qualche centinaio di bottiglie accatastate sotto terra.
Per far comprendere tutto ciò credo sia l’ora di smettere di fotografare meravigliose mise en place e si inizi a fotografare gente che lavora quando tutti sono di festa e magari iniziare a chiedersi quanto è il giusto compenso per un cameriere che il 31 dicembre lavora una decina di ore fino alle 3 o le 4 di notte. Quanto costa trovare un buon vino, un olio perfetto, quanti tipi di baccalà testare prima di arrivare a quello che ti assicurerà la miglior resa e la migliore qualità, e oggi quante cozze abbiamo pulito?
Vorrei che in albergo si facesse un esperimento tipo quello di The 2 Euro T-shirt per vedere poi quanti se ne andrebbero tranquilli dopo aver pagato una camera doppia con colazione 23 euro.
Oppure far capire cosa c’è dietro a un servizio. Bisogna raccontare il lavoro delle persone, la fatica e il sudore, abbandonare lustrini e paillette e mettere gli attrezzi del mestiere in primo piano, solo così potremo servire i nostri ospiti senza essere servi di tariffe ormai senza una logica se non quella dello sfruttare la situazione.
Dobbiamo raccontare il nostro lavoro mentre lo facciamo, mentre costruiamo le vacanze degli altri, e questa cosa la possiamo fare solo noi, rivolgendoci direttamente ai nostri ospiti senza intermediari o storyteller, ché l’ospitalità siamo noi che la facciamo.
Concordo, vero è che i primi a svilire la professione, complice anche il ruolo dei massmedia, sono proprio i grandi chef, che hanno la smania di apparire, ma soprattutto di far soldi. E di riflesso, tutti gli altri. Qualsiasi lavoro, è frutto di costanza, impegno e passione, se si vogliono ottenere risultati.
Concordo.
In generale, tutto ciò che illustra – brechtianamente, se posso giocare a fare l’intellettualino – il backoffice di un servizio turistico mi sembra utile a cercare la clientela che ci somiglia.
Nel mio piccolo, avevo già postato sulla paginetta Facebook del nostro mini-servizio turistico milanese un paio di cose sulle luci e le ombre del lavorare per gli altri.
Quello che mi aveva divertito di più era questo:
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1451076648527312&id=1426584580976519
Complimenti Robi, una bellissima riflessione su quello che sta dietro un servizio ormai diventato una “commodity” per dirla all’americana,
Sai, ho lavorato tanti anni con il fair trade e poi solo dopo, aprendo gli occhi sui tanti sfruttamenti e maltrattamenti che la gente subisce in Italia, a pochi metri da noi, ho capito che il fair trade dovrebbe essere sostenuto qui in Italia. Nei campi, dentro gli uffici, negli alberghi.
Perché per parlare di fair trade non importa andare fino al Vietnam dove le donne sono incatenate a una scrivania per cucire. Basta andare nei campi dove mandrie di disgraziati lavorano sottopagati per giornate interminabili al sole. O semplicemente in un ufficio, dove gente qualificata si accontenta di 500 euro a progetto per svolgere il lavoro di 2 persone. E i cinquantenni che mi consegnano la pizza a domicilio per pochi centesimi?!
Perché la gente torni a dare un valore a un servizio, bisogna fargli capire cosa c’è dietro a quel servizio. Bisogna farlo entrare dietro le quinte e qualche volta fargli anche vedere che non è poi così tutto facile come pare.
E ora che ci penso… non sarebbe bello che esistesse un fair trade alberghiero? Che certifica che l’ambiente di lavoro è sano, che non ci sono persone sottopagate o sfruttate? Forse può sembrare un’impresa inverosimile, ma io sarei felice di soggiornare in un posto con un’etica così.