Se la valutazione d’impatto serve ad analizzare la capacità di fare i miracoli delle DMO, la valutazione dei risultati (outcome) è utile per comprendere la loro efficacia. Le DMO fanno le cose giuste? A questa domanda cercheremo di rispondere nei prossimi post. Nel post odierno, il quarto della serie, ci chiediamo perché esistono e qual è il loro ruolo nel turismo.
Nelle puntate precedenti ho cercato di trasferire alcuni concetti importanti. Uno di questi è che non bisogna confondere performance della destinazione turistica e performance delle DMO. Il 2015 dovrebbe essere un anno positivo per l’Italia (intesa come destinazione turistica), nonostante l’ENIT sia bloccata. Allo stesso modo, la Svizzera è da qualche tempo in un periodo di “stagnazione turistica”, nonostante gli sforzi di Svizzera Turismo, l’ente nazionale per il turismo elvetico, spesso indicato come una “eccellenza”. Perché questa dicotomia? Richiamo brevemente quanto già accennato su questi pixel. Ad esempio, come misuriamo le performance? Se alla fine dell’anno analizzassimo la stagione turistica italiana in termini di quota di mercato rispetto ai principali competitor, e ci accorgessimo che Spagna e Francia sono cresciute quanto o più di noi, potremmo cambiare opinione rispetto alla percezione attuale di un anno positivo. Un altro motivo per cui non dobbiamo confondere risultati della destinazione e risultati della DMO è l’influenza dei fattori macro economici e geo politici, soprattutto nel turismo internazionale. Quanto hanno influito il dollaro forte, il costo del petrolio, le tensioni in Egitto e nel mediterraneo nei flussi turistici del 2015? In sintesi, per valutare i risultati delle DMO dobbiamo capire bene quattro aspetti:
- Chi sono e cosa fanno le DMO;
- Quali sono i meccanismi di trasmissione del loro lavoro sulla performance di una destinazione turistica;
- Come misurare il loro operato (come vedremo su molte cose, non basta la valutazione di una stagione turistica),
- Quanto contano i fattori esterni (mi riferisco a quelli macro-economici e geopolitici).
Per comprendere cosa sono e cosa fanno le DMO, dobbiamo ragionare in termini di network e non solo in termini istituzionali. Le DMO non sono solo i Sistemi Turistici Locali del Veneto. Non sono solo le Destination Management Company (DMC) e Product Management Company (PMC) dell’Abruzzo. Non sono solo le Aziende Turistiche Locali del Piemonte. Non sono solo tutte le forme e le istituzioni previste nelle altre regioni italiane (che per motivi di spazio non cito). C’è una (potenziale) DMO ogni qualvolta le imprese collaborano tra loro, o con gli enti locali in forme, più o meno, istituzionalizzate, più o meno organizzate, al fine di aumentare la competitività di una destinazione turistica. Ci sono ambiti, come fare lobby per un’infrastruttura turistica, come aprire una nuova rotta aerea, ecc., dove la singola impresa non basta; c’è bisogno di “fare squadra”. In sintesi, per capire le DMO del passato, del presente e del futuro bisogna sforzarsi di comprendere dove c’è bisogno di uno sforzo collettivo per aumentare la competitività di una destinazione turistica, definita come la capacità di offrire un ambiente (in senso lato) attraente per imprese, residenti e turisti.
In questa prospettiva, la DMO (istituzione) è solo uno dei tanti network che sul territorio svolgono la funzione di marketing territoriale (o place/destination marketing). In cosa consiste il marketing territoriale? Anche qui è importante avere una visione più ampia della promozione turistica in senso stretto. Per questo, preferisco definire il marketing territoriale come l’integrazione di due attività:
- Place making, cioè politiche, progetti, infrastrutture, l’ospitalità, la professionalità, collegamenti aerei, arredo urbano, paesaggi, ecc., cioè tutto quello che è diventa segno tangibile di un ambiente attraente per imprese e turisti;
- Place branding, cioè il tentativo esplicito (implicito), voluto (e non voluto) di influenzare la percezione (l’immagine) di imprese e turisti rispetto ad un territorio.
Sviluppando il ragionamento in termini più operativi, bisogna porsi due domande?
- Prima: quali sono, nello specifico, le attività di place making e place branding, insomma di che stiamo parlando?
- Seconda: chi dovrebbe svolgere queste attività? E’ necessario che ci sia un soggetto unico o è meglio una pluralità di soggetti? E’ necessario un principio regolativo o è meglio che la formazione dei network sia lasciata alla libertà di imprese ed istituzioni?
Per rispondere alla prima domanda, non vi propongo una lista che sarebbe troppo lunga e di dubbia utilità, ma un semplice modello (raffigurato qui in basso) ricavato dalla lettura accademica e aggiustato con l’esperienza sul campo. Il modello serve a determinare in termini macro i fattori di competitività turistica di una destinazione.
I punti salienti del modello sono tre:
- Primo, un ambiente favorevole alle imprese (soprattutto sotto il profilo della libertà, di una regolamentazione snella, una spiccata tutela dei diritti di proprietà), la dotazione di infrastrutture e la presenza di capitale umano qualificato sono fattori con un’elevata correlazione al successo turistico. In sintesi, se un territorio è competitivo in generale, lo è anche dal punto di vista turistico.
- Secondo, ci sono alcuni fattori, specificamente turistici che, se non sempre determinanti per se, assumono comunque una significativa importanza: il clima, i beni culturali, il brand, la tradizione turistica, la diversificazione dell’offerta, la qualità (intesa come soddisfazione dei servizi ricevuti dato un certo livello dei prezzi) l’accessibilità in termini di distanza, frequenza e collegamenti diretti con le località di origine dei flussi turistici, la presenza diffusa di infrastrutture turistiche e, infine, la sicurezza.
- Ai fini pratici, è importante catalogare i fattori turistici in due tipologie. La prima, il capitale turistico, comprende le risorse che un territorio ha in eredità e ha costruito nel tempo. La seconda, capacità turistica, annovera i fattori che sono i risultati del lavoro quotidiano ben fatto da imprese e istituzioni. A questa distinzione sfugge il concetto di brand (del territorio). Il brand (o reputazione turistica) inteso nel senso di relazione emotiva tra turisti e destinazione è sia capitale turistico (la relazione e l’immagine si formano nel tempo), ma è anche capacità, nel senso che la reputazione bisogna meritarsela e mantenerla ogni giorno.
Le implicazioni principali, ai fini della domanda da cui siamo partiti, sono che:
- le attività di marketing territoriale sono molto più diversificate della promozione turistica (e soprattutto della pubblicità, la forma prevalente di promozione utilizzata nel nostro settore);
- se il brand di una destinazione è il frutto di un processo storico ed è consolidato nel tempo, è riduttivo sostenere che le attività di branding possano basarsi sulla comunicazione e possano dare frutti nel breve periodo;
- se un territorio non è fertile per fare impresa, difficilmente lo sarà per fare turismo;
Sulla seconda domanda (c’è veramente bisogno di una DMO?), non ho una risposta definitiva. Quello che ho cercato di affermare nel post è che creare e mantenere una destinazione turistica competitiva esige uno sforzo collettivo su tanti fronti. Non è detto che ci sia bisogno di una sola DMO per svolgere tutte le attività, come non è detto che c’è bisogno di una sola DMO per una sola delle attività (ad esempio per la promozione non è raro che i Convention Bureau coesistano con DMO di destinazione). Quello che è importante è che ogni destinazione dovrebbe avere chiaro:
- una diagnosi dei propri fattori di competitività;
- una mappa di tutti gli attori (i network) che collaborano attivamente a rafforzarli;
- una serie di parametri per capire se gli sforzi di questi network producono risultati sperati.
E questo sarà l’argomento dei prossimi post.
Immagine di copertina MaxPixel (1)