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Ask not what the brand evokes… ask what evokes the brand.

Quando mi viene chiesto qualche consiglio su come  ripensare il branding delle destinazioni da parte delle DMO, rimando alla lettura di un paper di Beritelli, Reinhold e Luo, breve ma illuminante. Successivamente, propongo ai miei interlocutori di scegliere un campione di operatori rappresentativi dell’offerta della destinazione che si impegnino per un certo periodo di tempo a porre ai loro ospiti la domanda che da il titolo al paper: come è che siete arrivati qui? Badate bene, una domanda cosi posta non si limita ad indagare le ragioni della visita (il perché), ma allarga lo spettro ai vincoli e alle opportunità che hanno prodotto le decisioni di viaggio. Purtroppo, il mio suggerimento resta tale e quindi non posso raccontarvi gli esiti di questi esperimenti. Tuttavia, se avete seguito i primi post di questa rassegna, sapete già dove voglio arrivare. Le decisioni di viaggio, come tante altre decisioni di acquisto, sono influenzate  non solo dalle motivazioni, ma dalle persone con cui si viaggia, dalla durata del viaggio, dal periodo dell’anno in cui si viaggia e dal budget a disposizione. In una parola, dal contesto decisionale.

Il desiderio di sfornare numeri soprendenti a tutti i costi

Perché vi parlo di questo? Facciamo un passo indietro. Chi mi ha seguito in questa serie di post sulla promozione turistica dovrebbe aver compreso alcuni punti essenziali. Li riassumo per comodità. Le campagne sono finanziate in larga misura con i soldi dei contribuenti. Nei paesi dove c’e una tradizione di accountabiity del settore pubblico (non da noi purtroppo), le DMO hanno incentivo a misurare i risultati delle loro attività con metodi comprensibili anche ai non addetti ai lavori e che massimizzano oltre modo i risultati prodotti. Questo ha portato  al proliferare di conversion studies, studi che (in teoria) misurano per ogni tot di Euro spesi, il numero di turisti arrivati e/o il loro contributo all’economia locale. L’approccio di questi studi presenta alcune problematiche. Vediamole  brevemente.
Il primo problema è di carattere metodologico. Pochissimi studi, tra quelli effettuati, calcolano i tassi di conversione (il lift) cercando di isolare l’influenza delle campagne di promozione da altri fattori che hanno facilitato la decisione di visitare una certa destinazione.  Quindi se ho promosso la Calabria in Germania, vengono considerati “convertiti” tutti i turisti tedeschi che settimane dopo la campagna vanno in Calabria, anche se non sono stati esposti a  quella stessa campagna. Il secondo problema è strutturale. Anche negli studi metodologicamente più corretti non si è in grado di isolare i “falsi positivi”, cioè chi è stato esposto alla campagna e arriva a destinazione, ma aveva deciso di visitare una destinazione prima di essere esposto alla pubblicità. Di conseguenza, i tassi di conversione spesso forniscono una rappresentazione sovrastimata dell’efficacia degli annunci. Il terzo, e forse più importante problema, è la natura stessa degli studi di conversione, cioè il fatto che si concentrano sul numero di turisti arrivati effettivamente a destinazione.

Oltre la conversione, il brand building

Da tempo sappiamo che la pubblicità nel turismo come negli altri settori, ha un impatto che non è limitato al cambiamento di comportamento immediato (visito un sito web o una destinazione poche settimane o mesi dopo la campagna promossa dalla locale DMO) ma è esteso a una serie di effetti psico-cognitivi (inclusa la formazione dell’immagine) che possono portare un potenziale turista a visitare un posto molto tempo dopo che è stato esposto alla campagna pubblicitaria. Esistono ovviamente metodi per valutare questi impatti. Il punto è che quelli più utilizzati, e cioè  valutare a che punto siamo del purchase funnel, non sempre si sono dimostrati  affidabili.  Prendete, la classifica dei  luoghi del cuore e delle mete da sogno (una approssimazione del purchase intent).  In molti casi non coincidono con la classifica dei posti più visitati. Perchè? Ci sono diverse ragioni indagate da tempo, come la location (luoghi lontani dai mercati di origine), i costi di trasporto, la ricerca delle persone (con cui viaggiare) e del momento giusto per intraprendere il viaggio.  Queste ragioni però da sole non bastano a spiegare le differenze tra le classifiche. Il problema di fondo è che l’impianto teorico sul quale si fondano (le classifiche) non è, sempre, coerente con il modo in cui prendiamo le decisioni o, quanto meno, con quel poco che sappiamo di questa affascinante e, ancora tutta da esplorare, materia. Ne ho parlato nei primi due post di questa serie, ma chi è interessato a questi temi può leggere anche  questo articolo esaustivo.  Dobbiamo accettare l’idea che le decisioni di viaggio, per quel poco che sappiamo, non vengono sempre prese allo stesso modo. Quindi, acquisita questa consepevolezza, la domanda è: esistono vie alternative o (meglio) integrative a quelle più battutte per monitorare il brand building e quindi, per crerare i pressupposti di valutazione dell’impatto di un campagna di promozione turistica sul brand o sui brand di una destinazione? Si, e questa via porta in Australia.

Mental avaliablity

Byron Sharp e i suoi colleghi dell’ Ehrenberg-Bass sostengono che il brand manager deve porsi una e una sola domanda: in quali occasioni e/o momenti di vita/giornata X potrebbe venire in mente di avere bisogno e comprare un prodotto con il suo brand.  In altre parole, e tradotto nel nostro contesto: come e quando si pensa ad un viaggio o una vacanza? Per rispondere a questa domanda torna utile andare a rileggere quanto ho scritto nei primi due post della serie (vi rimando sempre lì). Qui mi limito a riportare quanto ho scritto in una breve sintesi.  Un (potenziale) turista  (o viaggiatore) che comincia a pensare o pianificare una vacanza (o un viaggio) ha una serie di esigenze (motivazioni, desideri, cose da fare in vacanza), vincoli e opportunità (budget, con chi viaggia, giorni di vacanza, ecc.) che in automatico lo stimolano a pensare ad alcuni luoghi dove andare. Secondo Sharp e i suoi colleghi, le destinazioni turistiche che vengono in mente in queste situazioni sono mental available.  Da quel momento,  è (molto) probabile che il nostro (potenziale) turista inizi a consultare e/o valutare Google, siti internet, OTA, conoscenti, agenti di viaggio, ecc.  Queste consultazioni porteranno in un certo lasso di tempo a prenotare (nella maggior parte delle occasioni) almeno uno dei seguenti servizi: il posto su un mezzo di trasporto, una camera dove dormire o un pacchetto.
In questa storiella ci sono due momenti importanti. Il primo è quello iniziale in  cui alcuni stimoli, triggers (secondo un recente rapporto di Google) o CEPs (Category Entry Points, secondo Byron Sharp e colleghi) fanno scattare non solo l’esigenza di andare in vacanza, ma fanno pensare anche il luogo ideale dove farla. Il secondo è quello che a Google chiamano il messy-middle, cioè tutte le ricerche che facciamo per esplorare o valutare alternative. Come sappiamo con internet è diventato semplice non solo confrontare i prezzi, ma qualsiasi cosa.  In molti casi, le ricerche fatte su internet e (raramente) sul campo confermano l’idea iniziale. In alcuni casi, si cambia idea. Cosa sappiamo di questi due momenti? Forse poco, ma due cosette le conosciamo e sono davvero importanti.
Primo, gli stimoli iniziali, come mi sforzo di dire dall’inizio, non sono solo le motivazioni (il why). Scrivetelo pure sui muri: il contesto decisionale conta, eccome se conta. Oltre al budget e al tempo a disposizione, ci sono altri stimoli situazionali da considerare. Come ad esempio il quando (when); quando si va in vacanza, in che stagione, in che occasione, per quale ponte o festa, ecc.  Un altro stimolo può arrivare dal con chi  (whith whom) si va in viaggio o vacanza; in famiglia, con i bambini, da soli, con una coppia di amici, ecc. Infine, uno stimolo molto concreto deriva dall’immaginarsi in vacanza in un luogo con certe caratteristiche (where); tipo di spiaggia, il rifugio ad attenderci dopo una bella scalata, le attrezzature adeguate per certe attività, ecc.  Tutto questo può sembrarvi  interessante in teoria o utile per una lezione universitaria. Tuttavia, è maledettamente pratico  e riscontrabile facilmente sul mercato. Provate a farvi un giro sui cataloghi on line dei principali tour operator e studiate le parole chiave con cui i loro servizi (hotel, pacchetti) vengono proposti e posizionati.  Oppure usate come si deve Google Trend e monitorate i termini più utilizzati nelle ricerche della vostra destinazione. Essi sono i riflessi degli stimoli e li descrivono in modo puntuale. Ad esempio, qualche tempo fa in una delle ricerche di Google (Summer Travel Trends: What Search Activity Reveals About Consumers’ Mindsets )  è apparsa la figura qui sotto. Un esempio illuminante di come la mente di un potenziale viaggiatore funziona.

Secondo, la valutazione delle informazioni nel messy middle  non è poi così razionale, ma si basa su  alcuni bias cognitivi . Nella ricerca di Google  che ho prima citato, sono stati identificati i 6 più influenti sui 100 conosciuti.  I bias cognitivi sono scorciatoie  mentali (per la maggior parte corrette) che ci consentono di interpretare la realtà in maniera rapida ed efficiente.  Banalmente, e per citarne solo alcuni che ci interessano: la qualità delle fotografie e delle informazioni, l’impressione di professionalità e accoglienza lasciata dai siti web visitati, fatti di cronaca che accadono a X proprio nel periodo in cui si valuta se andare o meno in vacanza a X, la popolarità e familiarità di alcuni luoghi simbolo.

Triggers o Category Entry Points

Partendo da queste considerazioni, è facile comprendere perché pensare a una destinazione turistica come brand, valutarne il ruolo nelle decisioni di viaggio e capire fino a che punto hanno le campagne di promozione hanno un impatto su tale ruolo, è una questione molto più sofisticata di quella raccontata nei convegni e nei webinar. Intanto fissiamo le cose semplici. La notorietà, la popolarità o la familiarità di un luogo sono la base di partenza. Se  una destinazione turistica non è sulla mappa (mentale) di pun potenziale turista, non è un brand. Sappiamo anche che essere in buona posizione ai blocchi di partenza del funnel, cioè avere buoni risultati in termini di consideration e intention of visit, è rilevante. Tuttavia, la misurazione di queste variabili e l’impatto della promozione su di esse, non sempre si è dimostrata affidabile. Per questo motivo è utile integrare ai modelli tradizionali di concettualizzazione e misurazione del brand, quello più innovativo di  mental availability. In questa prospettiva, il punto è capire se una certa destinazione viene in mente quanto ci sono determinati stimoli o se le sue qualità (percepite) ben si sposano con i bias cognitivi utilizzati nel decidere. Ne ho già parlato diffusamente in un altro post del blog. Compito di un bravo destination manager (con il cappello di brand manager) è capire quali siano i trigger o CEPs più rilevanti nei suoi mercati geografici di riferimento (per i prodotti spendibili nella propria destinazione), valutare a quanti di essi la sua destinazione viene associata e  quanto forti (rispetto ai competitor) sono queste associazioni. Si tratta di un modo concreto (e molto più vicino alla realtà del processo decisionale) di articolare il concetto altrimenti fumoso di immagine turistica e le strategie di posizionamenti. Posizionamenti e non posizionamento, perché come ho già spiegato altre volte, a meno che non siate un piccolissimo borgo, la strategia della Unique Selling Proposition o del classico posizionamento non ha proprio senso. L’idea che i turisti abbiano un solo consideration set che vale per tutte le tipologie di viaggio e per ogni occasione è davvero semplicistica.
Come individuare i CEPs? Vi propongo tre esercizi fattibli da qualsiasi DMO. Il primo è capire quale tipologia di vacanza ospita la vostra destinazione; abbastanza semplice se si smette di ragionare in modo autoreferenziale. Un consiglio, definitele per ogni mercato geografico che vi interessa (nella lingua madre) e a partire da come pensano i vostri ospiti o chi li aiuta ad arrivare da voi (tour operator, guide turistiche, media). Il secondo esercizio è fare una bella analisi delle parole chiave frequentemente più correlate nelle ricerche delle tipologie di vacanza associabili alla vostra destinazione o a quelle dei vostri competitor. Terzo esercizio, chiederlo ai vostri ospiti.  Forse ora si capisce meglio il perché  consideri la domanda come è che siete venuti a… strategica.
Questo approccio non è stato ancora testato in modo estensivo nel marketing delle destinazioni turistiche. Tuttavia, per analogia con altre categorie di beni e servizi, e come la ricerca di Google suggerisce, è probabile che per ogni tipologia di viaggio avremo pochi CEPs davvero rilevanti. Va da se che una destinazione – in qualità di brand – è ben posizionata se è Top of Mind nei CEPs utilizzati più frequentemente. Inoltre, maggiore è il numero di CEPs ai quali si è associati, maggiore è la probabilità di entrare nei consideration set.

In conclusione

Se uno dei compiti della promozione è fare brand bulding, dobbiamo domandarci cosa esso sia. In questo post vi ho proposto un modo di pensare che integra l’approccio tradizionale. Chi va in vacanza o intraprende un viaggio pensa  e decide alle destinazioni dove andare sulla base di stimoli e criteri inconsci (bias). Li abbiamo chiamati triggers o CEPs. Una destinazione turistica è un brand forte quanto più fresca (viente prima in mente, top of mind) è l’associazione ai CEPs più rilevanti e quanto a più CEPs è associata.  Il punto non è chiedere se pensi a Parigi, cosa ti viene in mente, ma, ad esempio, quando pensi ad un week end romantico, dove vorresti andare a trascorrerlo?

Antonio Pezzano

Antonio Pezzano assiste enti pubblici e organizzazioni turistiche a disegnare e attuare politiche e progetti che creino valore economico. Il suo ruolo é fornire dati e fatti concreti a chi prende le decisioni. E’ stato per conto della Commissione Europea coordinatore della rete di destinazioni turistiche europee di eccellenza EDEN.

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Antonio Pezzano assiste enti pubblici e organizzazioni turistiche a disegnare e attuare politiche e progetti che creino valore economico. Il suo ruolo é fornire dati e fatti concreti a chi prende le decisioni. E’ stato per conto della Commissione Europea coordinatore della rete di destinazioni turistiche europee di eccellenza EDEN.

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