L’Italia è tra i Paesi che destinano minor spesa pubblica, in termini pro-capite, per lo sport e le attività “ricreative”.
A stabilirlo è una recente ricerca che indica che il nostro Paese investe nello “sport” una cifra inferiore a quanto mostrato dagli altri Paesi dell’Unione Europea.
Certo, ci sono milioni di italiani che compensano tale bassa spesa pubblica con una spesa privata anche ingente.
Ma nella maggior parte dei casi, va detto, si tratta soprattutto di spese in termini di “fruizione passiva” che, nella migliore delle ipotesi, si traducono in una visita allo stadio, o con minor frequenza, al palazzetto di pallacanestro, di pallavolo o alla piscina, ma che con maggiore probabilità si traducono nell’acquisto di partite in TV (on-demand).
Eppure lo sport ha numerose ricadute positive, sia in termini di benessere individuale e collettivo, sia in termini di consumi derivati, come ad esempio, l’incremento di “turismo sostenibile” che potrebbe derivare da un “migliore” investimento pubblico indirizzato a quelle attività sportive che potrebbero essere messe in relazione con una più ampia visione di “scoperta del territorio”.
Oggi, infatti, il fenomeno del turismo sostenibile nel nostro Paese riguarda principalmente il turismo estero o gli appassionati; in ampie zone del nostro territorio, l’attenzione verso il “turismo sostenibile” rappresenta ancora un elemento che contrappone gli “sportivi” (e tendenzialmente, i ciclisti) ai disinteressati.
Adottando una logica “economica”, si potrebbe affermare che il fenomeno del turismo sostenibile evidenzi, sul lato della domanda, due tipologie di target estremamente differenziate. Tale risultato, tuttavia, più che dipendere da una naturale divergenza di “interessi” e di “gusti”, dipende piuttosto da una non esatta percezione del fenomeno.
A corroborare tale interpretazione, di seguito si mostrano alcuni dati, pubblicati da Statista, che pongono in evidenza due elementi su cui vale la pena riflettere: il primo è che una percentuale ancora alta di italiani si disinteressa agli elementi di sostenibilità quando “pianifica un viaggio”, e questo significa che sarà ancora più alta la percentuale di italiani che non acquisteranno prodotti legati al turismo sostenibile; il secondo è che, nonostante il grande investimento che anche nel nostro Paese è stato sostenuto per favorire la comunicazione, la sensibilizzazione, la diffusione e la divulgazione dei temi legati al turismo sostenibile, la percentuale di italiani che in fase di pianificazione di un viaggio hanno considerato elementi legati agli aspetti ambientali è rimasta, negli anni, praticamente invariata.
Il risultato è chiaro: se gli italiani si dividono in “sportivi” (che spesso si interessano al turismo sostenibile) e “non sportivi” che invece lo vedono come un consumo turistico distante, gli operatori economici tenderanno naturalmente a conquistare gli “appassionati”, perché investire su di loro è più remunerativo che investire su nuovi potenziali segmenti di turisti, e tale meccanismo può essere interpretato come un elemento di criticità del mercato (chi si ricorda il concetto di market failure?).
Se queste sono le condizioni, l’intervento del settore pubblico diviene quindi “giustificato”: l’obiettivo non deve essere infatti quello di finanziare alcune categorie di operatori a discapito di altre, ma favorire piuttosto la diffusione di una cultura legata al turismo sostenibile che non ripresenti una dicotomia tra naturalisti e indifferenti.
Trascorrere delle vacanze in una logica di turismo sostenibile, infatti, non significa essere “favorevoli” all’ambiente. Quella è una conseguenza.
Il turismo sostenibile è un turismo che consente la scoperta di nuovi territori, e fornisce ai turisti l’opportunità di vivere esperienze differenti dal classico turismo mordi-e-fuggi legato alle grandi città, o alle vacanze in spiaggia tutto-compreso.
Per far aumentare i consumi turistici sostenibili è dunque necessario in primo luogo mostrare come la divisione tra “turisti sostenibili” e “turisti non sostenibili” sia soltanto apparente. In questo senso, sarebbe forse utile dismettere una politica che, punti soltanto ed esclusivamente sugli aspetti di natura “ambientale” e “green”, che hanno un impatto su un target già “attento”, verso il quale, sono già attivi i soggetti privati.
Sarebbe piuttosto più efficace adottare una nuova tipologia di politica, che miri sempre più a sottolineare le “esperienze” di un turismo “autentico”, anche favorendo la formazione di specifici bundle d’offerta che siano in grado di coniugare gli aspetti sostenibili con altre tipologie di interesse.
In questo senso, quindi, incrementare la spesa pubblica in “sport legati alla scoperta del territorio” (trekking culturale, giri in bicicletta nei territori interni, ecc.) permetterebbe di associare alla dimensione sportiva anche la dimensione culturale, andando a ridurre quella distanza, ad oggi riscontrabile nelle offerte turistiche standard presenti sul mercato.
Inutile elencare tutti gli effetti positivi di una tale azione: dalla salute delle persone (promozione di uno stile di vista sano, ecc.) alla salute delle destinazioni turistiche. In fondo, sarebbe anche utile per “dirottare” turisti verso località meno note, andando in parte a ridurre i problemi di chi, fino a qualche mese fa, gridava all’overtourism, ammesso che il “no-tourism” derivante dal Covid non gli abbia già fatto cambiare idea.
Immagine di copertina MaxPixles (1)