Con la fine della pandemia e l’auspicabile ripresa economica si tornerà a parlare di overtourism e tourism dispersal. Leggeremo strali contro il turismo di massa, sonetti per il turismo colto e altre amenità. Oggi parliamo del sogno proibito dei policy maker in tema di overtourism, la dispersione dei flussi turistici.
Nel nascente ramo della letteratura accademica e professionale sull’overtourism, un posto d’onore spetta alle cosiddette strategie di tourism dispersal. Si tratta delle misure che intendono incoraggiare la visita in luoghi secondari o itinerari meno battuti. L’appeal politico di queste strategie è evidente tanto da essere a volte denominate come misure di ridistribuzione dei flussi. Quando leggo articoli e piani al riguardo, mi sembra di vedere visionari politici, amministratori e professionisti che si travestono da Robin Hood e prendono turisti alle destinazioni più popolari, per ridistribuirli ai borghi inerpicati nelle Appennini (preferibilmente del Sud).
Strategie di tourism dispersal
Tornando a essere seri, è opportuno distinguere le misure che promuovono luoghi e siti turistici alternativi, con l’ambizione di arricchire e diversificare l’offerta, da quelle che mirano espressamente a sostituire la visita delle destinazione e dei siti più famosi con quelli meno noti. Si tratta di due cose diverse.
Nel primo caso non si aspira a togliere turisti dal Turisdotto o dalle Cinque Terre, bensì a unire a queste destinazioni una visita di luoghi nei pressi o lungo il tragitto. Insomma, più un detour, che un dispersal. In questa situazione l’impatto (auspicabilmente positivo) sulla densità di frequentazione delle destinazioni più popolari, deriverebbe da una minore permanenza (in termini di ore o giorni) negli stessi. Strategia che però viene affossata nei documenti di piano sul turismo due pagine dopo, visto che porta ad una minore permanenza media e al grido del mordi e fuggi.
Il secondo caso, è invece l’utopia non tanto segreta di Robin Hood. Volevi andare a Firenze? Beccati, ddskdskd! Vi racconto un segreto. Nonostante queste misure vadano di moda sia negli annunci di politiche, sia nei documenti di pianificazione, si registrano pochi casi di effettiva implementazione e nessuna evidenza della loro utilità.
Le ragioni dell’inadeguatezza di queste strategie sono note e ben visibili a chi ha occhi per vedere. A parte il fatto che si pretende di cambiare comportamenti consolidati con campagne di marketing di qualità opinabile e budget media da pesi piuma, il tema vero sono le ragioni dei comportamenti turistici.
Le destinazioni popolari hanno almeno una caratteristica comune: la maggior parte dei visitatori sono escursionisti o turisti in visita per la prima (o seconda) volta. Queste due tipologie di visitatori hanno comportamenti molto simili: camminano lunghe distanze e (nelle grandi città) usano frequentemente il sistema di trasporto pubblico per raggiungere le principali attrazioni turistiche. Per questa tipologia di visitatori, una visita di successo può essere ottenuta seguendo un denso programma che richiede una pianificazione efficiente e una certa resistenza fisica. Di conseguenza, è possibile prevedere i loro modelli di mobilità urbana. Primo, una forte concentrazione nei siti più popolari e nelle vie che collegano questi posti. Secondo, una visita molto superficiale sia dei luoghi, sia delle principali attrazioni. Questi modelli comportamentali sono stati confermati da decine di osservazioni empiriche.
A livello di destinazione-Paese, in Inghilterra è almeno da 20 anni che si scrive di voler diventare meno dipendenti da Londra. Tuttavia i dati dicono altro. I turisti che visitano Londra e il resto del paese continuano ad aumentare, ma il peso di Londra anche. Se nel 2009 su 30 milioni di visite internazionali in Inghilterra, 15 erano registrate a Londra, nel 2019, la capitale si accaparra 22 visite su 40 milioni. Insomma, posso andare anche Newquay (bellissimo posto in Cornovaglia, btw), ma da Londra ci passo lo stesso.
Amsterdam è probabilmente la città che più di tutte ha puntato sulle strategie di dispersione. I primi tentativi risalgono al 2001. Recentemente, le soluzioni sperimentate ad Amsterdam sono state riportate sui media e sui documenti di policy prima citati. Nel 2016, il team di Visit Amsterdam ha sviluppato una app (chiamata Discover the City) che avvisa gli utenti quando un’attrazione è occupata e, soprattutto, suggerisce alternative. L’app non risulta più scaricabile e gli altri esperimenti in corso non hanno ancora dato i risultati sperati. Un’analisi molto utile in tal senso la fornisce Dirk Kloosterboer, autore del blog dirkmjk.nl specializzato in dati georeferenziati. In un post molto argomentato e basato sui dati ha dimostrato che dopo 20 anni, se è vero che ci sono nuove tappe nei giri turistici in città, il 75% dei luoghi da visitare indicati dalla Lonely Planet si trova nel centro della Città.
La risposta alla domanda del titolo è semplicemente… no.
Ps. Il post è ispirato ad un paragrafo di un lungo articolo che ho scritto per una pubblicazione curata dalla Prof.ssa Franch e dal Prof. Peretta Turismo, Fragilità ed Emergenze. Nel libro trovate molte altre riflessioni e prospettive che vi consiglio di approfondire.
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