I programmi di fedeltà sono una commodity nel marketing. Il loro obiettivo è aumentare la frequenza di acquisto di un cliente in un certo arco temporale (di solito un anno).
Questo strumento è divento un mantra nel nostro settore. A fare da apripista, secondo Wikipedia, è stata United negli anni ’70. Ma il vero e vorticoso sviluppo prende avvio negli anni ‘80 quando le compagnie si posero come obiettivo strategico di aumentare la quota dei frequent flyer. Viaggiatori lucrativi (pagano i prezzi più alti), ma anche volubili secondo gli analisti di mercato del tempo.
Da allora, le compagnie aeree di tutto il mondo hanno creato circa un centinaio di programmi frequent flyer che complessivamente contano più di centinaia di milioni di passeggeri e costano all’interno settore centinaia di miliardi di dollari.
Altre aziende che si occupano di viaggi, in particolare le catene alberghiere, hanno prontamente copiato questi sforzi, tanto che i programmi di fedeltà sono diventati comuni negli hotel. Tuttavia, poco più di dieci anni fa, uno studio della Cornell Hospitality ha seminato molti dubbi sul loro uso, in particolare per le piccole aziende alberghiere.
L’autore del rapporto, Michael Lynn, ha preso in considerazione il trasporto aereo americano, utilizzando i dati di 23 compagnie forniti dalla D.K. Shifflet Associates. Lynn ha scoperto un pattern comune a quasi tutte le categorie merceologiche (per utilizzare un termine vintage): i piccoli vettori sono tali perché (rispetto ai grandi) non solo hanno una base di clienti più limitata, ma anche meno affezionata.
Questo schema, noto come double jeopardy , è una legge empirica del marketing secondo la quale, con poche eccezioni, i brand con piccole quote di mercato hanno sia un numero di acquirenti inferiore, sia una minore fedeltà rispetto ai concorrenti più grandi. Viceversa, i principali brand per volumi di clienti, anche in assenza di politiche di fidelizzazione, hanno una fedeltà maggiore.
Da Wikipidia apprendo che il concetto di double jeopardy è stato originariamente proposto dallo scienziato sociale William McPhee nel 1963, che ha osservato il fenomeno, dapprima nelle indagini sulla popolarità e sul gradimento degli attori di Hollywood, e successivamente nei comportamenti (ad esempio, la lettura di fumetti e l’ascolto di presentatori radiofonici). Poco dopo (1969) Andrew Ehrenberg ha scoperto che lo schema era generalizzabile a molti brand. Da allora, numerosi studi scientifici hanno confermato e rafforzato questa tesi riscontrandola in praticamente tutti i settori dell’economia globale.
L’implicazione di questa legge del marketing è che, come sostiene lo studio di Lynn, gli sforzi per aumentare la fedeltà (tecnicamente la frequenza di acquisto di uno stesso cliente in un certo lasso di tempo – non possono avere successo senza espandere anche la base di clienti – tecnicamente il tasso di penetrazione). Anche se è proprio questo che i programmi di fedeltà cercano di fare.
Qual è il punto? Gli albergatori che ricorrono a questi programmi per ottenere un vantaggio competitivo rimarranno delusi, a meno che non si tratti di programmi per rafforzare il brand e aumentare il numero di clienti. Per capirci, sempre nel settore aereo, uno studio di Lederman (2007) ha dimostrato che l’uso dei programmi di fedeltà, sono associati a un aumento della sua domanda, in particolare su quelle rotte che partono da aeroporti in cui la compagnia è dominante.
Come scrive Lynn nel suo studio:
instead of targeting current users in an attempt to increase their frequency of purchase, hospitality and other marketers should focus on increasing the popularity of their brands among the market as a whole. Ultimately, successful marketing comes not from loyalty programs, but from creating value in the form of a superior product and service offering, communicating that value to all users of the product category, and capturing that value through pricing.
In conclusione, può sembrare controintuitivo, nel valutare i programmi di fedeltà che vi vengono proposti, la domanda da porsi è: sono cosi popolari e conosciuti che mi faranno arrivare nuovi clienti?
Alcuni studi interessanti sul tema
- Carlsson, F., Löfgren, Å., 2006, Airline choice, switching costs and frequent flyer programmes., Applied Economics, Vol. 38, No. 13, pp. 1469-1475
- Haden, L., 2006, Loyalty schemes in tourism., Travel & Tourism Analyst, No. No.16, pp. 1-34
- Lederman, M., 2007, Do enhancements to loyalty programs affect demand? The impact of international frequent flyer partnerships on domestic airline demand., Rand Journal of Economics, Vol. 38, No. 4, pp. 1134-1158
- Marvel, M., 2005, TTA 17 hotel loyalty schemes., Travel & Tourism Analyst, No. No.17, pp. 1-41
- Mattila, A. S., 2006, How affective commitment boosts guest loyalty (and promotes frequent-guest programs)., Cornell Hotel and Restaurant Administration Quarterly, Vol. 47, No. 2, pp. 174-181
- Preston, M., 2005, Consumer loyalty – the next battle ground for hotel distribution?, Hospitality Directions – Europe Edition, No. No.11, pp. 1-8