Overtourism. Termine e tema sono ormai entrati stabilmente nel dibattito pubblico. Se ne parla molto. E questa è una buona notizia. Se ne parla anche con crescente competenza. Ci sono amministratori, imprenditori, tecnici e osservatori che si informano, sperimentano, imparano. Anche dagli errori.
Tuttavia, permane un equivoco di fondo: molte idee sull’overtourism nascono da una visione poco realistica di come funziona davvero il turismo. Provo a sintetizzare qui alcuni punti chiave, con un invito (non troppo implicito) a cambiare approccio.
Il turismo è figlio del progresso, non della promozione sbagliata
Più reddito disponibile, pensioni generose (per almeno altri 15-20 anni), salute in età avanzata, flessibilità nei tempi e nei luoghi di lavoro e di svago: sono questi i fattori strutturali che stanno facendo crescere il numero di persone che viaggiano, i giorni di vacanza e, di conseguenza, i pernottamenti. Se queste condizioni non cambieranno bruscamente (le incognite geopolitiche non mancano), il turismo continuerà ad aumentare.
Chi parla di overtourism deve partire da qui. Il problema non è un eccesso di promozione o l’avidità degli operatori. Il problema – se vogliamo chiamarlo così – è che sempre più persone possono viaggiare, vogliono viaggiare e trovano offerte che glielo permettono. In molte località italiane si tradurrà in più affollamento nei ponti e nei mesi estivi, ma anche in stagioni che finalmente si allungano. È o non è ciò che in molti auspicavano? Fino a pochi minuti fa la destagionalizzazione era il sogno di assessori e ministri.
Le strategie di dispersione non bastano
Quando si verificano episodi di sovraffollamento, la risposta mediatica e politica più frequente è: “portiamo i turisti altrove”. Ma funziona davvero? No. Le persone non si distribuiscono automaticamente come una massa d’acqua. Le destinazioni turistiche funzionano come brand: alcune sono nella lista dei desideri da anni, altre sono suggerite da amici, influencer, o da una promozione ben fatta. Alcune emergono grazie a un’offerta irresistibile. Tutte, però, devono essere accessibili, disponibili sul mercato, riconoscibili.
Non si può sperare che basti una campagna per “riempire i borghi” e farli diventare essi stessi overturistici. Se le offerte di quei luoghi non sono nella mente, nei media, nei canali di vendita, se non hanno le infrastrutture e i servizi adeguati, se non sono competitivi sul piano dell’offerta, non succederà granché. O succederà una volta sola. La verità è che la disponibilità di una destinazione non si inventa. È il risultato di investimenti pubblici e privati fatti nel tempo: strade, aeroporti, attrattori, ma anche operatori capaci di fare bene il loro lavoro, non curando solo il loro prodotto, ma anche tutto il resto, marketing compreso.
La promozione che funziona non è (solo) quella delle DMO
Un altro fraintendimento frequente riguarda la promozione. Non è una questione di enti pubblici, agenzie o ministeri. La promozione è diffusa e continua: la fanno ogni giorno migliaia di persone che vendono camere, escursioni, biglietti, esperienze. La fanno piattaforme, creator, media e turisti stessi. La fanno anche gli algoritmi. Chi ha investito in un’attività turistica cerca visibilità e prenotazioni. Siamo alle basi della logica di economia di mercato. Tema poco caro a molti esperi e osservatori del settore, cresciuti a pane e paternalismo.
Non possiamo “risolvere” l’overtourism. Possiamo però gestirlo meglio
Serve quindi un salto culturale. Non si tratta di impedire che le persone viaggino, né di fermare lo sviluppo turistico. Si tratta di imparare a governarlo con più consapevolezza. Non con strumenti pensati per un mondo che non c’è più, ma con politiche fondate su dati, osservazione dei comportamenti reali, modelli interpretativi aggiornati. Servono competenze che tengano insieme economia, diritto, diritti, marketing, mobilità, infrastrutture, e – certo – anche qualità della vita dei residenti. Che non sono un blocco unico. Insomma, servono politiche e politica.
Chi oggi prende decisioni pubbliche sul turismo deve conoscere come funziona davvero il mercato. Deve saper leggere gli incentivi economici e culturali. Deve avere consapevolezza dei diritti in gioco. Come anche delle politiche pubbliche. Soprattutto in un Paese con un debito pubblico che ne limita in partenza le possibilità. Deve uscire da narrazioni consolatorie. E accettare che il turismo, come ogni sistema complesso, non si controlla. Si gestisce con soluzioni diffuse che si imparano nel tempo, anche (o forse soprattutto) sbagliando e imparando dagli errori.