Innovazione inizia con la I, come ignoranza
Come ogni estate che si rispetti, al bar, sotto l’ombrellone, lungo i sentieri di montagna o in coda in autostrada parleremo o sentiremo parlare di cosa non va nel turismo italiano. Sarà che a fine luglio c’è stato il convegno dell’Osservatorio Parlamentare per il Turismo, negli ultimi giorni (scrivo questo post il primo di agosto), mi è capitato di ascoltare e leggere opinioni di esperti, politici, amministratori e giornalisti. Ho avuto la sensazione che si esibissero al lancio del luogo comune. Giusto per capire di cosa parlo. Com’è che abbiamo l’80% del patrimonio culturale mondiale e perdiamo quote di mercato? La permanenza media in Italia è troppo bassa, dobbiamo convincere ai turisti a stare di più. Dobbiamo spostare i turisti dalle grandi città ai piccoli borghi. Il turista è cambiato, oggi sceglie prima cosa fare e dopo dove andare. Airbnb ha creato una nuova offerta che crea problemi. Abbiamo bisogno di una promozione integrata. Dobbiamo fare sistema. Potrei continuare. Se seguite i miei post su questo blog, sapete bene che ognuna delle frasi precedenti è stata smontata con argomenti e dati ai quali finora nessuno ha replicato con altrettanta convinzione. Detto questo, sono sconcertato dall’uso senza freni della parola innovazione e la completa ignoranza di cosa essa sia o come la si possa promuovere.
Dovendomi occupare di politiche pubbliche per il turismo, devo studiare sul campo e sui libri come promuoverla. Ora, la mia conclusione (non mia per la verità, e non originale ovviamente) è che l’innovazione la fanno gli imprenditori nella misura in cui non li si tartassi con le tasse e abbiano un quadro di regole chiare e non troppo vincolanti. È altrettanto ovvio che le imprese più hanno il fuoco sotto il sedere (concorrenza) più sono spinte a fare bene e a trovare soluzioni efficienti. Banalità direte voi. Tuttavia, l’Italia che ha le chiavi per promuovere tali principi li disattende, anche (e a volte soprattutto) nel settore turistico. Non è un caso che su 547 progetti di investimenti diretti esteri nel settore turistico registrati in Europa tra il 2013 e il 2017, solo 21 sono in Italia (dati Fdi).
Nello stesso periodo in cui al convegno sul futuro del turismo in Italia si parlava di innovazione, ho registrato due fatti con i quali si preferisce il passato al futuro. Uno riguarda il blocco all’apertura di McDonald’s alle Terme di Caracalla. A prescindere dal merito, perché un’impresa deve seguire regolarmente un iter burocratico di 4-5 anni (solo una multinazionale può aspettare tanto??) e dopo vedersi bloccati i lavori con una decisione politica?
Un’altro esempio più illuminante è la questione delle concessioni balneari. La vicenda è nota. Chi ha una concessione vuole evitare l’assegnazione delle stesse con gara pubblica, che deriverebbe dall’applicazione della cosiddetta direttiva Bolkestein (2006/123). I giornali parlano della questione per mettere in risalto questioni giuste come i canoni irrisori attualmente pagati dai concessionari, il dato che circa il 50% delle spiagge sabbiose italiane è sotto concessione (in alcune aree il 98%), i prezzi elevati e l’uso da proprietà privata che alcuni concessionari fanno della spiaggia in concessione. A nessuno viene in mente una semplice domanda. Perché l’Italia, soprattutto del Sud non è per niente concorrenziale sul prodotto più venduto dei banchi del turismo europeo, cioè quello balneare? Un po di concorrenza indotta da gare pubbliche (con criteri che salvaguardino gli investimenti effettuati e promuovano un uso sostenibile della risorsa arenile) non gioverebbe ad individuare imprese che intendono innovare? Questa domanda, non solo non viene posta, ma è anche fuori luogo. Anche questo Governo, infatti, sta tentando di estendere la proroga della Direttiva e ha promesso di dare battaglia per togliere questa materia dalla Bolkestein.
Consentimi di trarne una conclusione, almeno per quanto concerno il nostro settore. Siamo un paese di santi, poeti, navigatori e innovatori a parole.
Immagine MaxPixel (1)