Promozione turistica, ragionamenti per comprendere come funziona o come dovrebbe funzionare.
Nel post precedente abbiamo affrontato il tema della efficacia della spesa pubblica per la promozione turistica dal punto di vista del decisore pubblico. Abbiamo visto che gli studi commissionatati da chi spende danno pareri favorevoli (se non entusiastici). I ricercatori indipendenti sono molto più scettici. Nel post odierno e in quelli che seguiranno, vorrei assumere un altro punto di vista. Quello degli enti del turismo (o delle DMO). Fino a che punto gli investimenti in promozione (comunicazione) turistica – a prescindere dalla fonte di finanziamento – funzionano? C’è un modo per misurarlo? Quali sono le prassi correnti? Che lezioni possiamo trarre?
La mia risposta a queste domande sarà lunga e articolata. Vi chiedo di avere pazienza di seguire fino in fondo la premessa e le lunghe digressioni che dovrò fare. Purtroppo non posso essere sintetico perché i miti e gli assunti di partenza da smontare sono tanti e ben radicati negli approcci attualmente in uso. Pertanto è necessario che scriva qualche pippone su come si decide dove andare in vacanza e su come la pubblicità (pardon promozione) possa influenzare queste decisioni. Spoiler. Questo post è un pipppone su come si prendono le decisioni di viaggio e come funziona (in generale) la pubblicità. Useró i termini promozione e pubblicitá attribuendogli lo stesso significato.
Prima di cominciare una nota. Le DMO, gli enti del turismo, i ministeri come gli assessorati al turismo investono nella promozione turistica per diversi motivi. Sebbene il motivo ufficiale sia attrarre i turisti, le ragioni più profonde sono altre. Si va dal far fare una bella figura al Ministro o all’Assessore, fino al puro marketing interno (fare contenti gli imprenditori turistici o i residenti di un luogo). Per questo motivo esistono campagne di successo (hanno vinto premi, sono piaciute ai residenti e agli operatori turistici) che alla prova dei fatti hanno avuto effetti limitati sulla domanda turistica. I destination manager/marketer si trovano spesso ad operare con budget ridicoli e linee guida cosi vincolanti da limitare la possibilità di promuovere campagne efficaci. Pertanto, questa serie di post non intende in alcun modo essere a favore o contro una campagna piuttosto che una DMO/NTO. Il mio obiettivo è molto più semplice. Avviare una discussione su temi dove c’è ancora davvero molta superficialità.
Se il turismo fosse un prodotto merceologico, in quale reparto del supermecato troverebbe posto?
La prassi corrente tratta il turismo come una categoria di servizi omogenea. In aggiunta, le destinazioni sono considerate come “prodotti”. Si tratta di semplificazioni che portano a errori di impostazione delle strategie di marketing. Il modo in cui si prendono le decisioni di viaggio e vacanza è influenzato dalla tipologia di viaggio e dal contesto decisionale. Non si può fare di tutta l’erba un fascio.
Un esempio. Per lavoro mi trovo spesso a Roma dove alloggio negli stessi hotel di turisti e viaggiatori di affari di ogni provenienza. Sebbene la mattina ci troviamo tutti nella stessa sala colazione, siamo a Roma per motivi differenti. Con molta probabilità condividiamo il percorso verso le fermate dei mezzi pubblici e dei taxi. Poco altro. Eppure siamo considerati statisticamente tutti “turisti”. Alcuni ci definiscono turisti culturali. Anche se solo una minoranza delle persone che hanno condiviso con me la sala colazione visiterà un museo o un’area archeologica. Non conosco a fondo la realtà romana, ma dovrebbe essere simile a quella di altre grandi città che sono destinazioni turistiche. I turisti che vengono da altri continenti seguono – in molte occasioni – percorsi diversi da quelli domestici. La stessa regola vale per gli itinerari di un turista repeater rispetto a uno che visita la città per la prima volta.
Se l’esempio di Roma non vi ha convinto, pensate alla località di montagna e alla differenza di offerta tra stagione invernale ed estiva. E ancora a regioni che sono veri e propri brand come la Sicilia o la Toscana. Considerarle come un unico prodotto è davvero riduttivo. Le destinazioni complesse come Roma, l’Italia, regioni o grandi aree territoriali, anche se brand, non sono un (unico) prodotto. Le destinazioni sono piuttosto un contenitore di tanti prodotti e servizi assemblati dai turisti o da un tour operator/agenzia nel caso di viaggi organizzati. Quando si va in vacanza, si organizza un viaggio o un semplice week end, si prendono una serie di decisioni. Dove andare, dove alloggiare, con chi andare, con quale mezzo, con quale compagnia. L’elenco è lungo. Queste decisioni non sono random, ma hanno uno schema. Questo schema dipende dalla tipologia di viaggio e dal contesto in cui si prendono le decisioni. Faccio riferimento a variabili quali la durata del viaggio (vacanza), le sue motivazioni, le attività da svolgere, la compagine di viaggio, il reddito disponibile, eccetera.
Dove andare in vacanza. Prenotazione meditata o compulsiva?
Le tipologie di viaggio e il contesto decisionale sono importanti anche per comprendere un altro aspetto del modo un cui si prendono le decisioni di viaggio. Molti studi assumono che il turismo sia un classico esempio di high envolvment category. In altre parole le decisioni di acquisto sarebbero precedute da una lunga fase di dreaming, ricerca e pianificazione delle informazioni. Ma è davvero così? I risultati dei primi studi empirici sul tema mostrano che anche nel nostro settore si verificano decisioni di acquisto impulsivo. Tali decisioni sono, di solito, associate a viaggi più brevi, un piccolo numero di compagni di viaggio, particolari motivazioni di vacanza e familiarità con la destinazione. Le conseguenze di queste evidenze sono dirompenti. I modelli teorici di riferimento (su come si sceglie una destinazione) su cui si basa la promozione turistica non sono sempre validi. Per comprendere quanto ho affermato nell’ultima frase, devo fare una digressione sulle teorie dei processi decisionali e l’impatto della pubblicità sulle decisioni di acquisto (di viaggio, nel nostro caso).
Una lunga digressione su come si prendono le decisioni di viaggio e come funziona la pubblicità
Prendiamo il celeberrimo modello AIDA. Esso appartiene a una classe di modelli conosciuti come gerarchia di effetti o modelli gerarchici. Il loro postulato fondamentale è che i turisti abbiano un processo decisionale lineare e sequenziale articolato in tre fasi. La scelta di una destinazione (terza fase) è necessariamente preceduta da due fasi. La prima, detta cognitiva, consiste nel venire a conoscenza di una particolare destinazione. Questa conoscenza è precondizione della fase affettiva dove si sviluppa una disposizione positiva (verso la destinazione) che è il preludio alla scelta. Nel lontano 1908, Elias St. Elmo Lewis scrisse un libro, Financial Advertising, nel quale c’era scritta una regola adottata ancora oggi: “If we cannot gain the reader’s attention it is manifestly impossible for us to interest or convince him.” Nasce cosi il modello AIDA : Attenzione, Interesse, Desiderio, Azione.
I modelli di gerarchia degli effetti dominano il pensiero sulla promozione (pubblicità) da allora. È convinzione comune che, per essere efficace, la pubblicità debba catturare l’attenzione consapevole, quindi trasmettere un “messaggio” persuasivo e, se necessario, conficcare questo messaggio nella memoria del consumatore. La maggior parte dei libri di testo, le raccomandazioni degli esperti e le ricerche di mercato, soprattutto nella promozione delle destinazioni turistiche, riflettono questi modelli. Si enfatizzano questioni come “catturare l’attenzione”, “essere unici”, “mettere in risalto benefici per il turista”, spiegare “the reason why visitare la destinazione”, eccetera. Seguendo questa logica una pubblicità è tanto più efficace quanto più può essere ricordata (recall).
Focalizzandoci nel marketing del territorio, il presupposto sul quale si fondano questi modelli è che la decisione su dove andare in vacanza è lunga e meditata. I pubblicitari non devono limitarsi a far conoscere la destinazione, ma devono essere capaci di creare attenzione e un atteggiamento positivo. Per essere più precisi, la strategia mainstream della promozione di destinazione ha due comandamenti. Primo, sviluppare una Unique Selling Proposition (USP). Secondo, comunicare in modo persuasivo la USP. Per farla breve, il paradigma che informa il modo in cui le DMO gestiscono la comunicazione e i brand di destinazione è molto semplice. Ed è simboleggiato dall’imbuto (il famoso funnel). Nella parte larga dell’imbuto ci sono tutte le destinazioni che conosciamo. Man mano che l’imbuto si stringe troviamo le destinazioni che consideriamo, che desideriamo e che alla fine scegliamo. È come la Champions League. Una cosa sono i gironi eliminatori, ma vuoi mettere arrivare alle semifinali o in finale? Il compito della pubblicità è persuadere i turisti che la nostra destinazione è unica. È da finale. E merita di vincere. Per questo ci gasiamo quando troviamo l’Italia tra le mete più desiderate del mondo. È come essere in finale di Champions League.
Intendiamoci non c’e’ nulla di sbagliato in questo approccio. Molte pubblicità di questo tipo funzionano per alcune tipologie di viaggio. Le evidenze dei risultati del marketing digitale, soprattutto delle campagne di direct marketing (o sales activation) sono chiare (anche se gonfiati, nei successivi post spiego perché). La pubblicità intesa come “sales pitch”, esiste e funziona in particolari contesti e prodotti da sempre: leggo un annuncio, sono persuaso e ordino/prenoto. Ma la realtà, come al solito, presenta diverse facce. Lo psicologo Walter Dill Scott osservò già nel 1903 che la pubblicità può essere efficace anche senza attirare l’attenzione cosciente o essere richiamata consapevolmente (recall). Oggi, grazie agli sviluppi della ricerca scientifica in psicologia, neuroscienze e sugli effetti della pubblicità, sappiamo che aveva ragione. Molti annunci di successo non sembrano contenere affatto un “messaggio” e, anche se lo fanno, spesso accade molto altro nell’annuncio che sembra essere più importante. Alcuni esperti sostengono addirittura che la pubblicità è più efficace quando non viene notata o elaborata consapevolmente; quando non ci accorgiamo di essere influenzati.
Questo approccio, ormai verificato con prove molto solide, è ancora non pienamente accettato anche da chi lavora nel turismo e nel marketing. Diciamo la verità. Troviamo abbastanza spiazzante sapere che siamo influenzati senza volerlo. Tuttavia, come Daniel Kahneman ha dimostrato e popolarizzato nel suo libro Pensieri veloci, pensieri lenti, questo non è solo vero per la pubblicità, ma per quasi tutte le nostre decisioni. Le nostre risposte alle persone che incontriamo, ai negozi e ad altri luoghi che visitiamo, i film che vediamo, le notizie a cui prestiamo attenzione sono influenzate dai segnali e le associazioni di cui siamo spesso incoscienti. Le nostre preferenze e i nostri pregiudizi vengono generalmente appresi in modi che non notiamo.
Robert Heath inThe Hidden Power of Advertising e Phil Barden in Decoded: The Science Behind Why We Buy hanno spiegato con molta efficacia come la pubblicità funzioni creando associazioni (nella testa del consumatore) tra il brand che promuovono e situazioni di necessità e di acquisto. Acquisiamo in gran parte queste associazioni inconsciamente, attraverso la “elaborazione a bassa attenzione”: la visualizzazione di spot televisivi, ad esempio, spesso avviene in uno stato mentale rilassato e non orientato in cui immagini, musica e risposte emotive passano nella memoria a lungo termine senza apprendimento consapevole prendere posto. La descrizione del libro di Heath su Amazon spiega meglio di me il pensiero di Heath, per cui la copio a la incollo qui sotto.
The way advertising works is not so transparent after all. Advertising does have some sort of hidden power which enables it to influence us without our realising it.
The Hidden Power of Advertising presents a radical new challenge to traditional thinking about the way consumers interact with and process brand communication. For over 70 years the universal assumption has been that advertising is only effective if it consciously persuades consumers to choose a particular brand. In such circumstances attention is critical, which is why most of the advertising industry’s creative resource is focused on achieving the highest possible levels of interest and awareness. But how is it that advertising can and frequently does work, even when consumers have no conscious awareness of having seen or heard the ads themselves?
Recent neuroscientific research has shown that the brains capacity to absorb certain types of brand information is far greater than we ever imagined. Building on these findings, Robert Heath is able to explain with exceptional clarity how advertising creates meaningful and enduring brand associations in our minds, even when we pay virtually no attention to it. These associations exert a powerful influence on our intuitive feelings, and can unknowingly drive us to choose and buy particular brands.
This mechanism – low involvement processing – turns out to be an especially effective way of getting through to consumers, who in general have little or no interest in learning about brands. Heath shows that low involvement processing has been a major factor behind the success of mega-brands in markets as diverse as insurance, cars, toilet paper, cigarettes, and beer. The Hidden Power of Advertising is a must-read for those involved with creating, planning and researching effective advertising, advertising and marketing academics, indeed anyone interested in the field of advertising and marketing communications.
Che il nostro cervello abbia un lato razionale e uno emotivo lo sappiamo da tempo. Neuroscienziati, economisti comportamentali e psicologi concordano sul fatto che il lato emotivo (nel senso di intuitivo) di solito prevale. Lo psicologo della New York University Jonathan Haidt usa una bella analogia per spiegare la relazione tra razionalità e intuizione: il lato emotivo è l’elefante, il lato razionale è il fantino. Il fantino dell’elefante sembra essere al comando, ma quando c’è un disaccordo tra l’elefante e il cavaliere, l’elefante di solito vince. Il rapporto tra queste due dimensioni, come ormai avrete capito, è al centro del customer journey. Ed proprio per capire cosa succede in questo rapporto che abbiamo diverse teorie su questo viaggio. Un interessantissimo recente rapporto di Google sul tema ci propone una bella infografica dove seleziona 8 di questi modelli.
Sono giunto al termine di questa lunga digressione e del post. Spero che adesso alcune questioni siano chiare a chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui. Il turismo non è un’unica categoria merceologica, ma un’amalgama di diverse tipologie di viaggio che influenzano le decisioni di vacanza e di viaggio. Per molti tipi di viaggio, i nostri processi decisionali sono tutt’altro che razionali e lineari. Per questo motivo l’influenza della promozione sulla scelta della destinazione di viaggio non avviene necessariamente persuadendo i potenziali turisti. Allo stesso tempo, gli effetti della campagna di promozione non sono sempre misurabili in termini di incremento delle prenotazioni nelle settimane, mesi o anno successivo alla campagna. Infine, considerato che le destinazioni sono contenitori di diverse tipologie di viaggio, non c’è sempre una sola ricetta valida per promuovere la destinazione. Pertanto per valutare l’efficacia di una campagna di comunicazione turistica dobbiamo preliminarmente chiederci che tipologia di viaggio si sta promuovendo e quali sono gli obiettivi della campagna di promozione. E il prossimo post parlerá di questo ultimo argomento.
Note
Come sapete i miei post sono informati non solo e non tanto della mia esperienza personale, ma soprattutto del lavoro prezioso di ricerca di accademici ed esperti. Qui sotto alcuni link agli articoli e libri che hanno ispirato questo post.
Decisioni di viaggio:
Impulse purchasing in tourism – learnings from a study in a matured market
Impulsive buying in hospitality and tourism journals
Tourist purchase decision involvement and information preferences
A grounded typology of vacation decision-making