Promozione turistica, tra i dire e il fare
Proseguiamo i nostri ragionamenti sulla promozione turistica. Con il post odierno cominciamo ad analizzare come valutano le campagne gli enti del turismo in giro per il mondo. L’obiettivo non è giudicare se siano bravi o meno. Il nostro intento è capire cosa si fa, come si fa, perché lo si fa e fino a che punto è utile alla causa dei nostri destination manager.
Promozione turistica: alcuni spunti da Brand USA
Brand USA, il braccio del marketing del governo USA, valuta le proprie campagne pubblicitarie dal 2014. I risultati, dal loro punto di vista, come potete leggere dalla tabella qui sotto, sono clamorosi. Per ogni dollaro investito in promozione ci sarebbe un ritorno di almeno 24 dollari in spesa turistica e di quasi 4 dollari in tasse generate dalla stessa spesa dei turisti (la tabella è tratta dal report 2019 che trovate a link sopra).
Come ho già spiegato nei post precedenti non bisogna farsi impressionare da queste cifre. Primo, non ho mai letto uno studio promosso dagli enti turistici che non abbia dati sbalorditivi. Gli enti del turismo sono prevalentemente finanziati dalle tasse. Visto che la lotta per le risorse fiscali è molto dura, nei paesi dove i contribuenti o i loro rappresentanti esigono maggiore trasparenza, uno studio (molto) positivo per dimostrare il buon uso dei fondi pubblici è il minimo sindacale. Secondo, siamo sicuri che il ritorno sull’investimento sia davvero una metrica adatta a valutare l’efficacia dal punto di vista delle DMO (e non della spesa pubblica)? Su questa sottile differenza torneremo presto. Terzo, fino a che punto i metodi alla base delle valutazioni di Brand USA sono corretti o invece sono scelti con il proposito di valorizzare certi risultati?
Brand USA affida la valutazione degli effetti delle proprie campagne a Tourism Economics evidenziando misure di efficienza da invidia, tuttavia nell’ultima pagina dei suoi report c’è un grafico eloquente (qui sotto).
Da quando è entrata in funzione, la quota di mercato degli Stati Uniti nei mercati focus (cioè oggetto delle campagne di marketing) si è prima arrestata, poi è diminuita. Questo fatto sembra dare ragione a due correnti di pensiero. La prima sostiene che il marketing delle destinazioni turistiche conta poco o niente nello spiegare la competitività di una destinazione turistica (quote di mercato), soprattutto quando per destinazione consideriamo un paese, una città metropolitana o grandi aree geografiche. La seconda ci ricorda che le misure di efficienza (come il ROI) non sono adatte a valutare l’efficacia. Su questo punto tornerò in un altro post dedicato a questo tema specifico.
Un approfondimento sul metodo di valutazione
Le valutazioni condotte dal 2013 ad oggi assumono che gli effetti delle campagne siano misurabili in incremental international visitor spending attribuibili alle stesse. Il termine incremental non deve trarre in inganno. Questa terminologia ci porta a concludere che Brand USA giochi un ruolo nell’incrementare il numero di turisti verso gli Stati Uniti. Se fosse cosi, il report sulla performance evidenzierebbe i dati dei flussi turistici provenienti dai mercati focus spiegando quanto di questi incrementi siano attribuibili al lavoro di Brand USA. In realtà, il dato che ci viene presentato è un altro. Sebbene si usi il termine incremental, il dato illustrato dai report è la quantità di turisti che sarebbe influenzata da Brand USA. In altri termini, Brand USA dice ai propri stakeholders: se non ci fossimo noi, gli USA non avrebbero visto circa 7,4 milioni di turisti internazionali in sette anni che hanno speso quasi 7,5 miliardi di dollari. Tanto per intendersi, parliamo dello 0,1% del flusso di turisti internazionali nello stesso periodo, e del 2% di quello proveniente dai mercati focus. È come se dicessero: non importa che non cresciamo o perdiamo quote di mercato. Senza di noi, la sconfitta sarebbe stata ancora peggiore. Una impostazione che ha senso da un punto di vista della giustificazione del finanziamento pubblico. Tu (Governo USA ) mi dai $1, io ti restituisco $24 (secondo i loro calcoli). Tuttavia, a mio avviso, self defeting. Si presenta il marketing come un investimento che ha un rendimento immediato e si tralasciano gli effetti di lungo periodo (brand building). In questo modo se si smonta la metodologia di attribuzione (la quota di turisti in arrivo negli USA influenzabili da Brand USA), il castello cade e non si rende giustizia al marketing (non si valutano gli effetti di brand building).
Le valutazioni dal 2013 al 2016
we find Brand USA’s marketing efforts have little effect on inbound international travel to the US, thus showing a potential weakness in place marketing efforts abroad.
Come abbiamo visto sopra, a Brand USA non interessa valutare la performance degli USA su ogni mercato. A Brand USA interessa dire che senza di loro una quota X di turisti dal mercato Y non sarebbe comunque venuta. Ma che succede se uno studio dimostra che ci sono altri fattori (in luogo del marketing) che spiegano quella quota X? Questa domanda, posta dai ricercatori che hanno firmato il paper in questione, merita e aspetta ancora una risposta.
Torniamo a Brand USA e alla metodologia applicata dal 2013 al 2016. Purtroppo le informazioni e i dati di base disponibili non sono davvero chiari, tuttavia bastano per imbastire alcuni ragionamenti. La valutazione si basa sull’assunto che le campagne di marketing abbiano influenzato una quota di viaggiatori che altrimenti non sarebbe venuta. Questo assunto, come detto, coccia con tutto il pippone che ho illustrato sul brand building nel post precedente. Campagne di promozione turistica dichiaratamente di brand building che vengono misurate in termini di sales activation. Ma andiamo avanti e vediamo più da vicino il metodo, o meglio le informazioni disponibili su di esso. Ipsos è stata incaricata di condurre sondaggi sui mercati focus al fine di monitorare il brand recall e la sua influenza sulle intenzioni di viaggio. Oxford Economics ha calcolato la “quota di influenza” in base ai risultati di questi sondaggi. Questa è stata calcolata come (A) la quota di intervistati che ha visto la pubblicità, (B) ha saputo identificare gli Stati Uniti come destinazione di viaggio e (C) ha dichiarato di aver modifico le proprie intenzioni di viaggio (internazionale) dal periodo in cui è stata lanciata la campagna di marketing. La percentuale ottenuta è quindi la stima della quota di viaggiatori influenzati dalla campagna sui mercati focus. Questa quota viene poi moltiplicata per il numero di turisti internazionali di quel mercato (D) e per la spesa media negli USA del viaggiatore proveniente da quel mercato (E).
Questa metodologia si basa due presupposti. Il primo è che la campagna di promozione turistica abbia un impatto (cosiddetto brand lift) sulle intenzioni di viaggio. Il secondo è che ci sia una forte correlazione tra intenzione di viaggio e effettuazione dello stesso. Nello specifico, che tutti quelli che hanno dichiarato di aver modificato le loro intenzioni di viaggio dopo il recall della pubblicità l’abbiano poi realmente fatto. Vediamo se entrambi questi presupposti sono fondati.
Come ho scritto nel post precedente, la ricerca scientifica ci dice che la pubblicità può in effetti aver un impatto sulle intenzioni, ma è modesto e deve essere misurato con metodologie opportune. Nel caso di Brand USA, dalle poche informazioni che abbiamo, la metodologia utilizzata ha due imperfezioni. In primo luogo, non c’è una base-line (per le intenzioni di viaggio) prima della campagna. Qual era l’intenzione di viaggio verso gli Stati Uniti prima della campagna pubblicitaria? Questo dato avrebbe dovuto fungere da baseline e successivamente si sarebbe dovuto verificare se la campagna era stata capace di modificare il dato di partenza avendo cura di avere un gruppo di controllo (campione non esposto alla campagna stessa). In secondo luogo, le intenzioni di viaggio dovrebbero essere misurate con scale probabilistiche . In realtà IPSOS, nella sua indagine, ha chiesto agli intervistati in un dato periodo se avessero modificato le intenzioni di viaggio (verso gli Stati Uniti). Si tratta di un metodo poco ortodosso dettato dalla necessità di avere un dato relativo all’anno Y presentabile nell’anno Y+1. Ammesso e non concesso che la metodologia seguita sia corretta, sulla base di quale indagine o evidenza empirica si ritiene che il secondo presupposto sia corretto? In altre parole, come fanno a determinare che le azioni (il viaggio) seguono le intenzioni (di viaggio)? E qui casca l’asino.
Fino a che punto le intenzioni di viaggio sono un buon indicatore predittivo?
Come ho spiegato nei due post precedenti dedicati alla promozione turistica le decisioni di viaggio, soprattutto, nei viaggi internazionali o long haul sono molto influenzate dal contesto. Avere intenzione di andare in posto (come sognare di andarci) non è una condizione necessaria né sufficiente per una decisione; ci sono solo pochi casi in cui entrambi tengono (la decisione è congruente con l’intenzione). Se non fosse cosi, tutti i paesi da bucket list (come l’Italia o gli USA) avrebbero orde di turisti visto che sono in cima alle intenzioni di viaggio (con punte del 90% degli intervistati che dichiara di volerci andare nei prossimi due anni). In un bel paper, Pietro Beritelli e i suoi colleghi hanno riportato gli esiti di una piccola indagine davvero molto interessante. Hanno chiesto a 110 persone le destinazioni che sognano di visitare ma che non hanno ancora visitato. Successivamente hanno chiesto perché non le avessero ancora visitate. Gli inibitori più forti erano di gran lunga condizioni sociali come “non ho avuto occasione di andare con …”, “non conosco nessuno che potrebbe venire con me”, seguiti da “non ho tempo “e “non abbastanza denaro”. Gli stessi ricercatori ci ricordano che sogniamo di visitare luoghi e paesi che probabilmente non visiteremo mai. D’altra parte, visitiamo destinazioni che non abbiamo mai sognato di visitare. Oppure, come le oramai tante tracce digitali ci raccontano, pianifichiamo di visitare determinate destinazioni, acquisendo molte informazioni, per poi modificare questi piani perché non siamo in grado di trovare l’offerta di viaggio giusta o organizzare correttamente il viaggio o perché il processo di pianificazione genera nuove idee e suggerimenti.
A corredo di quanto ho riportato nel paragrafo precedente, devo ricordare che il purchase intent in generale (non mi riferisco solo al turismo) tende a sovrastimare il comportamento reale. Studi che aggregano risultati di altri studi arrivano ad affermare che solo il 50% di chi dichiara che intende acquistare un certo prodotto poi effettivamente lo fa. Ritengo che questa percentuale potrebbe addirittura essere più elevata nel turismo. Mi spiego meglio. Parto delle considerazioni che vi ho proposto nei post precedenti e cioè che nel turismo esistono diverse tipologie di prodotto. Valuto che i viaggi o le vacanze più impegnative dal punto di vista del portafoglio e mentale (tipicamente i viaggi long haul, ma non solo) hanno una elevata probabilità di essere desiderati, ma non sempre realizzati. Inoltre, a quanto ne sappiamo da altre categorie di prodotto e servizi, il purchase intent è fortemente correlato con acquisti precedenti. Traslato nel nostro settore, significa che tra chi dichiara di voler visitare una destinazione ci sono probabilmente più persone che hanno già visitato la stessa destinazione che tra chi dichiara di non averla visitata. Quindi chi vuole fare una valutazione ben fatta di questo indicatore in relazioni a tipologie di viaggio abituali (come i weekend), deve considerare nella propria baseline la componente di chi è già stato in un posto.
C’è un ultimo passaggio del metodo di Oxoford Economics che merita un approfondimento. Come abbiamo visto la metodologia che porta alla stima del numero dei turisti influenzati dal marketing di Brand USA è tutto tranne che robusta. Supponiamo che sia corretta, fino a che punto é opportuno moltiplicare questo numero per la spesa media dei turisti di quel mercato sul suolo USA? La variabilità della spesa dei turisti internazionali in un paese grande come gli USA è elevata. Assegnare a una piccola fetta di viaggiatori (tra 0,5% e il 2% di ogni mercato focus) un valore medio di spesa è comprensibile, ma arbitrario.
Considerazioni finali e appunti per il futuro della promozione turistica
Gli enti del turismo, come un qualsiasi dipartimento di marketing di una grande azienda, devono dimostrare il valore delle proprie azioni. Il loro compito è però molto più arduo. A parte le questioni tecniche e di metodo (non secondarie), la necessità di dover sfornare anno dopo anno numeri altisonanti per giustificare il finanziamento pubblico porta a due scelte di fondo. In primo luogo si travisa il contributo della promozione evidenziando le capacità di sales activation a scapito del brand building. Secondo, si scelgono metodi che risaltano risultati clamorosi mettendo da parte la correttezza metodologica. In questo modo si sacrifica la reale comprensione degli effetti della promozione turistica.
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