Stronger together, coordinamento e cooperazione per rafforzare gli investimenti media delle DMO.
La spesa pubblica (dei contribuenti) a favore del turismo si è dimezzata sia in termini assoluti, sia in rapporto alla spesa pubblica complessiva. Nel 2000 l’apparato pubblico (centrale, quello regionale e locale) spendeva (ai valori attuali) circa 2 miliardi di euro, oggi ne spende poco più di 1*. Un trend in discesa molto evidente nel grafico sotto.
* I dati si riferiscono alla spesa effettiva (flussi di cassa) rilevati dal sistema dei Conti Pubblici Territoriali.
Di questa spesa una quota è allocata alla promozione in senso stretto e quindi agli investimenti sui media (pubblicità) e al supporto alla commercializzazione (fiere, tour, ecc.). Quanto? Uno studio di Federalberghi del 2006 ha stimato che il 20% della spesa pubblica per il turismo del periodo 2000-2006 sia stata diretta a questo scopo. Ritengo che a partire dal 2008, quando il volume di aiuti alle imprese incanalato tramite strumenti appositi per il settore è nettamente diminuito*, la quota di spesa per la promozione sia aumentata fino al 40%. Anche in questa ipotesi, alla fine del secondo decennio del nuovo secolo, si è investito in promozione molto meno che all’inizio del primo decennio.
* Gli aiuti alla imprese turistiche sono continuati nell’ambito di fondi e strumenti non settorializzati, ma rivolte al mondo delle PMI.
Il punto è che i flussi turistici verso l’Italia (compresi quelli domestici), corretti per la propensione ai viaggi, non ne hanno risentito. In altre parole, nello stesso periodo in cui la spesa pubblica per il turismo è diminuita, l’Italia ha tenuto la propria quota di flussi nei mercati internazionali e in quello domestico*. Insomma, le due variabili non vanno di pari passo suggerendo quindi che la spesa pubblica per il settore sia inefficace. Non è un caso isolato, ne tanto meno una peculiarità italiana.
* Tornato nel biennio 2018-2019 ai volumi prima del 2011 (anno della crisi).
L’effetto degli investimenti pubblici in promozione turistica in Italia, come in altri Paesi, valutato attraverso i pochi studi seri e indipendenti che disponiamo è, nel migliore dei casi, opinabile. Per questo motivo, prima del Covid, a livello globale abbiamo registrato netti tagli ai finanziamenti degli enti di promozione turistica e, in alcuni casi, la chiusura degli stessi. Che fare quindi, proseguire sulla strada dei tagli fino a chiudere questi enti? Mi permetto di suggerire una strada diversa e qui ne spiego le ragioni.
Partiamo da una considerazione. Senza il marketing non si vende. Apple può disegnare e produrre i prodotti più utili e belli al mondo, ma senza la pubblicità non avrebbe l’attuale quota di mercato sugli iPhone. Secondo l’ultimo dato pubblico disponibile, l’azienda californiana ha speso nel 2016 circa 2 miliardi di dollari (2% dei ricavi).
Come evidenziato bene nell’immagine qui sotto e spiegato in questo articolo (che vi invito a leggere), se si smette di fare pubblicità a un brand, le vendita dei prodotti cui si riferisce diminuiscono inesorabilmente. Vorticosamente se si tratta di brand con pochi clienti. Lentamente se si tratta di leader di mercato.
Il perché è presto detto e lo spiego con le toerie dei ricercatori dell’Ehrenberg-Bass Institute, autori anche dello studio cui si riferisce l’immagine precedente. I brand sono, dal punto di vista della domanda, un groviglio di collegamenti tra stimoli – che riceviamo da bisogni e situazioni di acquisto – e prodotti e servizi che servono a rispondervi. Nel gergo delle teorie di marketing più evolute, questi stimoli sono identificati come Category Entry points (CEPs), cioè pensieri e idee spontanee che attraversano la mente dei consumatori nel momento in cui devono comprare qualcosa o prenotare un viaggio (nel nostro caso). I CEPs sono molto importanti perché sono come le porte di entrata che la mente usa per arrivare al prodotto e servizio che stiamo cercando e il brand è il collegamento tra la porta e il prodotto. Più porte sono collegate al brand, tanto più il brand viene in mente e, a parità di altre condizioni, acquistato. La pubblicità serve a costruire e (soprattutto) a mantenere il groviglio di collegamenti di cui ho parlato prima. O, se preferite, a mettere il brand davanti alle porte della metafora successiva. Più i brand sono presenti davanti al maggior numero di porte, e in prima fila davanti a queste porte, più tendono a essere acquistati.
Posto che se per pubblicità si intende qualsiasi forma di comunicazione (pagata o spontanea) che rinfresca (nella memoria che utilizziamo per stabilire dove andare in vacanza) le associazioni tra una destinazione e i criteri di decisione, è evidente che le DMO non hanno l’esclusiva sulla reclame di una destinazione turistica. Ci si dimentica spesso che la promozione di un luogo è un’azione collettiva dove operatori turistici, creativi (pensate ai film) e altri soggetti comunicano messaggi (a volte simili, altre complementari o in contrasto) a prescindere da intenzioni più o meno esplicite di cooperare. Le DMO hanno (spesso, ma non sempre) il monopolio sulla spesa pubblica per la pubblicità, ma non quello della comunicazione.
Per capire questo punto guardate il grafico qui sotto, che ho elaborato a partire dai dati che ho estrapolato da un rapporto molto interessante redatto da Ce.R.T.A. – Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi dell’Università del Sacro Cuore di Milano, insieme a Publitalia ’80 – Gruppo Mediaset. I dati si riferiscono agli investimenti sui media italiani rilevati da Nielsen nel triennio 2017-2019. In arancione, la quota che è espressamente finalizzata a promuovere le destinazioni turistiche. Possiamo desumere che una quota di spesa di altri soggetti concorra a promuovere (anche) le destinazioni.
La morale è molto semplice. Se l’efficacia delle campagne pubblicitarie dipende dalla capacità di rinfrescare e rafforzare le associazioni mentali di cui prima, tanto più i messaggi pubblicitari di diversi soggetti sono coordinati, tanto più è probabile avere un impatto. Ci sono diverse forme di cooperazione. Da quelle più strutturate (co-marketing), a quelle più spontanee. Anche le forme più semplici (condividere un messaggio chiave) possono funzionare. L’importante è avere una strategia solida alla base. Ecco, questa purtroppo manca, e non è nei menu di programmi, post e convegni.
Torno alla domanda iniziale. Ha senso chiudere le DMO? No, se sono capaci di cucire relazioni per strategie di promozione che hanno una buona probabilità di fare impatto. Sì, se sono enti autoreferenziali che continuano a vivere in un universo parallelo fatto di parole d’ordine sganciate dalla realtà.