DMO data driven: esistono davvero?
Questo post è il succo del mio intervento alla V Edizione di “Officina Turistica incontra l’Istituto di Istruzione Superiore “Panzini” di Senigallia”, che si è tenuta l’11 gennaio 2o19.
Quelli che fanno
Per molti studenti il futuro professionale e lavorativo si articola in due tipologie di lavoro. Ci sono quelli che “fanno le cose” e quelli che “decidono come si fanno le cose”.
Di solito per riuscire bene nel percorso professionale, prima si fanno bene le cose, e poi si impara a decidere. Ma non è sempre così. Nelle DMO, che per brevità identifichiamo come il dipartimento marketing di una destinazione turistica o un consorzio di imprenditori turistici, “quelli che fanno” sono i componenti del social media team (se ancora ci sono), i webmaster, quelli che si occupano delle brochures, chi si prendono cura di organizzare gli appuntamenti alle fiere per gli operatori, chi si occupa delle campagne di promozione, chi sovrintende ai bandi, ecc.
Quelli che prendono le decisioni
Chi prende le decisioni alloca il budget, redige il media planning (cioè quali media utilizzare per la promozione) e, in teoria, dovrebbe farlo dopo aver studiato i mercati, condotto ricerche sperimentali e analizzato i dati. E qui casca l’asino.
Quante DMO prendono decisioni informate da fatti e dati?
Quante sono in grado di valutare in modo oggettivo e qualificato i risultati delle azioni condotte? La risposa è molto poche, come molto poche sono le imprese del nostro amato settore che sono data driven. E lo sono per due buone ragioni. Parliamo di piccole e piccolissime organizzazioni e imprese per le quali il costo di informarsi è spesso superiore al beneficio di farlo. Spesso, l’intuito, il copia e incolla e la tradizione ci prendono. Però è inutile nascondersi. L’arrivo delle OTA che fanno molto bene quello che le DMO avevano solo promesso di fare, il drastico taglio dei finanziamenti pubblici e la digitalizzazione hanno cambiato lo scenario da piccolo mondo antico a cui eravamo abituati. Oggi, se non citi almeno una volta la parola big data in un convegno sul turismo, sei uno sfigato.
Big data!?
I Big data ci hanno portato all’estremo opposto. Oggi le DMO data driven hanno a disposizione tantissimi dati e molti di essi a basso costo. Tanto che diventa importante saper scegliere quali informazioni sono davvero utili. Vi propongono quindi un metodo per scegliere dati utili e significativi a cui potrete ricorrere quando dovrete prendere decisioni, sia che vi troviate a dirigere una DMO, sia che siate a capo de dipartimento marketing di una grande catena alberghiera.
Chi usa i dati e perché?
La prima domanda da porsi è “chi usa i dati e perché?”. I dati sono utili se le informazioni che contengono sono in grado di far prendere decisioni su questioni che si possono influenzare. Semplice in teoria, contorto nella realtà. Le DMO, ad esempio, possono influenzare (in minima parte) la distribuzione (dell’offerta turistica di una destinazione) e (ancora meno) la promozione della destinazione.
Molte DMO, compresa l’ENIT – l’Ente che promuove l’Italia nel mondo – e le agenzie di promozione turistica regionali, hanno il dipartimento Trade. Compito di questo dipartimento è partecipare alle fiere, organizzare i road show o i familiarization trip perché i buyer (tour operator e agenti di viaggio) incontrino l’offerta di una destinazione turistica.
Logica vorrebbe che dato un certo mercato (prendiamo la Germania), la DMO conosca e monitori sistematicamente, per ogni segmento di offerta, quale sia la copertura dei canali (in quali cataloghi appare l’offerta della destinazione) e con che prominenza (che risalto viene dato). Questo dato è fondamentale per capire qual è nel medio termine l’effetto di tutte le azioni di trade.
In altre parole, tutte le coccole che abbiamo fatto all’emissario del gruppo TUI nel corso del 2018 che effetti sortirà nel 2019 e 2020 in termini di copertura e prominenza sui suoi cataloghi? Nella mia esperienza professionale non ho mai visto questo dato monitorato, mentre si fa largo ricorso ad altri indicatori quali la soddisfazione degli imprenditori turistici che hanno partecipato alle fiere. Utile per misurare la febbre, ma poco per capire quali siano le cause. Ma perché si utilizza questo dato? Primo perché è semplice da monitorare. Secondo, perché è una tradizione (lo si fa da sempre e lo fanno tutti, allora continuiamo a farlo). Terzo, perché i budget delle DMO non dipendono dai risultati conseguiti, ma da altre variabili sulle quali gli umori degli imprenditori turistici (a volte) contano.
Quale ipotesi che c’è dietro ogni metrica?
La seconda domanda da porsi è: quale ipotesi che c’è dietro ogni metrica? Non mi riferisco solo alla formula, ma al perché di quella formula. Da quando il branding è diventato uno dei compiti principali delle DMO, uno degli indicatori più utilizzati dagli uffici del turismo dei paesi turisticamente più sviluppati è l’Anholt-GfK Nation Brands Index (NBI). Si tratta di un’indagine internazionale che misura la reputazione di 50 paesi.
Per ciascun paese, viene assegnato un voto rispetto a sei parametri: esportazioni (reputazione dei prodotti realizzati in quel Paese), governo (affidabilità e trasparenza delle istituzioni), cultura (patrimonio storico-artistico e capacità di innovazione), persone (livello di simpatia e attrattività), turismo, capacità di attrarre investimenti e infine immigrazione. Il voto si basa su almeno 1000 interviste (on-line) per paese (in 20 paesi) rivolte a persone con più di 18 anni (ponderate in modo da riflettere la composizione demografica della popolazione online di ciascun paese).
Interpretiamo i dati
Nelle edizioni che ho potuto consultare l’Italia è sempre al primo posto (per il turismo), mentre la Spagna è tra il terzo e il quarto posto. La classifica sul turismo (o se volete la reputazione turistica) secondo questo indice deriva dalla risposta a domande che cercano di posizionare nella percezione degli intervistati i paesi che sono più ricchi di monumenti naturali e culturali, e che hanno le città più vivaci. Inoltre, agli intervistati viene chiesto quali siano i paesi che vorrebbero visitare se i soldi non fossero un vincolo ad organizzare il viaggio. Infine, agli intervistati viene chiesto di associare il paese ad alcune parole e concetti chiave.
L’indagine è molto utilizzata dagli enti del turismo perché permette di avere informazioni dettagliate sulle opinioni degli intervistati in ogni mercato e fare un confronto tra i paesi competitor anche rispetto alle associazioni di prodotti, parole e concetti chiave. Quest’ultima informazione è considerata molto preziosa. Sulla qualità (da un punto di vista metodologico) di questa indagine rimando ad un’analisi che trovate qui. A me interessa far notare due motivi per i quali ritengo questo tipo di ricerche una piacevole e interessante lettura, ma poco utili per leggere il fenomeno turistico.
Il primo motivo è che il movimento turistico in questo caso viene giustificato da concetti vaghi come natura, cultura, e città. In altre parole, nella speciale classifica NBI l’Italia è al primo posto per reputazione turistica perché svetta nella percezione degli intervistati come un paese Rich in historic buildings & monuments, Rich in natural beauty e dove ci sono Vibrant city life & urban attractions. Questa impostazione omette che un terzo dei viaggi internazionali è motivato dalle location balneari (secondo le indagini IPK). Se si considerano i viaggi internazionali dei turisti europei in paesi non confinanti in Europa, il peso del balneare è ancora più marcato. Una mia analisi su dati Eurostat mi porta a concludere che l’80% del miracolo spagnolo degli ultimi anni è praticamente dovuto alle località balneari (soprattutto le isole).
Il secondo motivo è che il desiderio di visitare un paese sia considerato un indicatore di probabilità della visita a quel paese. Supponiamo che io vi domandi che automobile vorreste comprare se i soldi non fossero un problema. Sono quasi sicuro che la maggior parte di voi risponderebbe una Ferrari. Ma non mi pare che in giro ci siano tante Ferrari. Le differenze tra il mondo dei sogni e la realtà sono tante e non solo per la mancanza dei soldi. Le decisioni di viaggio, come tutte le decisioni di acquisto, avvengono in un puzzle chiamato contesto di cui i soldi sono solo una tessera.
Dan Ariely, professore di psicologia e di economia comportamentale, una volta ha detto (mi pare con un tweet):
Big data is like teenage sex: everyone talks about it, nobody really knows how to do it, everyone thinks everyone else is doing it, so everyone claims they are doing it…
Per cui, se non volete restare teenager, anche nel campo dei dei dati, ponetevi sempre le seguenti domande:
a) A chi servono?
b) Che decisioni si possono prendere e quali conseguenze hanno queste decisioni?
c) Qual è l’ipotesi che c’è dietro una metrica?