Nei prossimi mesi vi proporrò un’analisi sulla destinazione turistica del futuro suddivisa in quattro articoli. Alcuni appunti affinché la destinazione del futuro non continui a somigliare a quella del passato.
Si può innovare se si ha paura del futuro?
Il Parmigiano Reggiano DOP è uno dei prodotti agroalimentari di maggior successo al mondo. Questo dipende da tanti motivi: un gusto inconfondibile, la sua centralità in molte diete e una storia millenaria che gli ha conferito un grande fascino a livello globale.
Il Parmigiano Reggiano è anche innovazione; infatti è uno dei prodotti che si è completamente trasformato ultimi cinquant’anni. Il Parmigiano di oggi ha forma, peso, colore e sapore diverso da quello degli anni 50’.
Fino alla Seconda guerra mondiale una forma di Parmigiano pesava 20 chili circa. Per conservarla la si ricopriva con misture di olio e cenere. Per questo motivo la classica immagine del Parmigiano, fino agli anni Sessanta, era proprio quella della forma abbastanza piccola e con la crosta completamente nera.
Assaggiare il Parmigiano ante seconda guerra mondiale è ancora possibile. Ma bisogna andare negli USA. Infatti, li si produce un formaggio piuttosto morbido, con forme di circa 20 chili e dalla crosta nera. Si tratta del tanto osteggiato Parmesan del Wisconsin.
Il motivo è piuttosto intuitivo. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, tra i milioni di italiani che si trasferirono in America, ce ne sono tanti che sanno fare il formaggio. Alcuni di loro si trasferiscono nel Wisconsin, dove c’era il contesto adatto a mettere in pratica le loro capacità artigianali.
Tra queste capacità, quella di fare il Parmigiano nella versione allora conosciuta e che ho descritto prima. Avete capito bene. Il Parmigiano Reggiano più fedele alla tradizione e all’esperienza secolare dei monaci emiliani oggi si fa negli Usa, più precisamente nel Wisconsin: è il famigerato Parmesan, nemico giurato delle nostre produzioni.
Se questa storia vi sembra assurda, non conoscete quella dei pomodori di Pachino. Questi pomodori hanno un’immagine legata alla Sicilia, al sole e alla tradizione. La realtà è però diversa: quelli che oggi chiamiamo pomodori di Pachino è una varietà introdotta nel 1989 dalla multinazionale sementiera israeliana HaZera Genetics, che l’aveva ottenuta attraverso selezione assistita da marcatori.
Si tratta di una tecnica di selezione genetica applicata alle piante e agli animali che permette di migliorare caratteri d’interesse (produttività, resistenza a stress abiotici e biotici), attraverso l’impiego di marcatori morfologici, biochimici e genetici. Una storia di chimica ed innovazione, piuttosto che di tradizione.
A proposito di tradizione. Io sono nato in Calabria e ricordo che fin da piccolo i miei genitori raccoglievano le olive e facevano l’olio. Tuttavia, come mi nonna sottolineava, è una attività che lei ha cominciato a fare quando era già adulta e dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’olio extravergine d’oliva anticamente non era usato dagli italiani. Mia nonna, usava lo strutto, molto più popolare e conveniente.
Queste e altre storie le ho apprese leggendo Denominazione di origine inventata, di Alberto Grandi, un libro che vi consiglio di leggere. Non solo per assaporare il gusto della scoperta dell’invenzione e comprendere, come siamo stati bravi con lo storytelling sulle nostre tradizioni. Consiglio la lettura del libro perché è molto efficace nel descrivere la nostra paura del futuro e quindi della nostro atteggiamento conflittuale verso l’innovazione.
La celebrata e tradizionale cucina italiana è stata costruita sull’innovazione di prodotto e del marketing. Tra gli anni 60’ e 70’ l’industria alimentare italiana ha fatto bene il proprio lavoro, per dirla con le parole del nostro amico Vincenzo Moretti. Per prima cosa, è stata brava ad assecondare il gusto di una società che passava in tempi di record da agricola a industriale. Secondo, ha saputo raccontare le storie giuste per rendere i prodotti più appetibili. Le storie che gli italiani e poi anche molti altri consumatori internazionali volevano farsi raccontare.
Oggi, questa capacità è intrappolata: da una parte abbiamo disciplinari di qualità, tipicità e tradizione che soffocano sul nascere l’innovazione di prodotto, dall’altra stiamo perdendo la sensibilità di comprendere l’umore e il gusto del mercato. Se i marchi di garanzia, i DOP e compagnia bella fossero stati inventati nel medioevo, non avremmo la cucina italiana e staremo ancora mangiando le radici.
Per Alberto Grandi, l’aspetto più rischioso di questa cristallizzazione della tradizione è che la quota dei consumatori sensibili al nostro fortunato storytelling si sta restringendo. Le nuove generazioni (non solo in Italia) considerano poco le tradizioni e preferiscono cucine esotiche o internazionali.
Secondo Grandi il mercato si sta evolvendo e sta inglobando altri valori. Inoltre, c’è una riflessione di Grandi che vi prego di considerare: noi italiani tendiamo a sopravvalutare la considerazione della nostra cucina nel mondo. Come riporta Grandi, qualche anno fa il New York Times ha svolto un’indagine fra i suoi lettori, per stabilire i 50 piatti migliori al mondo, e solo due sono risultati italiani: la pizza e le fettuccine Alfredo (che peraltro non sono esattamente italiane).
La destinazione turistica del futuro
Il turismo e le destinazioni turistiche italiane corrono seriamente lo stesso rischio. La nostra paura del futuro e la celebrazione continua del passato, sono un freno all’innovazione.
Vorrei darvi qualche esempio:
* Nel Recovery Plan, cioè il piano di investimenti pubblici per proiettare il nostro paese nei prossimi 30-50 anni, il focus degli investimenti è ancora una volta e in esclusiva l’eredità del passato.
* Nei primi 100 progetti di lungomari-waterfront già realizzati e catalogati nel portale web archiportale.com, solo uno è localizzato in Italia.
* Nessuna destinazione turistica italiana ha un progetto degno di nota nel premio europeo per le Smart destinations, dove non è che siano presenti progetti avveniristici.
* Le nostre città non brillano (anzi) nell’affollata produzione di classifiche su innovazione e sostenibilità.
* Negli ultimi 15 anni, solo il 5% degli investimenti diretti esteri nel turismo in Europa, vanno in Italia.
La domanda è: come si può innovare in un paese che ha paura del futuro? Come si può innovare in un settore che non fa altro che valorizzare il passato? Nello specifico, come si fa una innovazione di prodotto in una destinazione? Come può una destinazione del futuro non somigliare a quella del passato?