Oggi parliamo di viaggi dell’orrore, ovvero di sostenibilità economica del turismo di nicchia e opinione pubblica.
In un recente articolo comparso su Turisti per Caso si riporta l’iniziativa di alcuni Tour Operator che hanno organizzato (e messo in vendita) dei tour dedicati a quanto accaduto a Gaza il 7 ottobre del 2023.
Il tono dell’articolo è di condanna, e richiama pertanto ad un’etica che dovrebbe mantenere alcune aree del pianeta o alcune esperienze fuori dal consumo turistico.
Tale riflessione, pur riguardando una sensibilità umana e personale, può essere tuttavia inserita in una dimensione più ampia, che provi a contestualizzare l’insieme di temi economici ascrivibili alle cosiddette mete inusuali secondo una logica che non sempre viene presa in considerazione.
In tal senso, è in primo luogo doveroso tenere in considerazione che le mete inusuali (anche quando urtano la nostra sensibilità) non possono essere condannate.
Pur risultando a molti quantomeno “poco elegante”, bisognerebbe star bene attenti ad attaccare il tour dell’attacco ad Israele. Se si condanna una tale azione, è corretto allora condannare i tour dedicati alla seconda guerra mondiale ma mai nessuno si è mai sognato di attaccare coloro che organizzano viaggi di questo tipo. Al riguardo, si noti che il riferimento ai tour della seconda guerra mondiale non è in nessun modo un tentativo, esplicito implicito o indiretto, di creare un paragone tra le due vicende. Al posto dei tour legati alla guerra mondiale si potrebbero utilizzare come termini di paragone i tour della guerra d’indipendenza americana, o i tour della Bosnia, così come i tour dopo le catastrofi naturali. Se si è scelta tale comparazione è semplicemente perché, a differenza di questi ultimi esempi, i tour legati alla seconda guerra mondiale sono molto più frequenti nella nostra cultura italiana ed europea.
Fermo restando, dunque, il diritto delle persone di visitare qualsiasi luogo sia per loro degno di essere vissuto, è importante comprendere che quando si tratta di mete quantomeno inusuali, ci si sta riferendo soprattutto ad un’offerta di mercato rivolta ad un gruppo ristretto di persone, condizione che ci porta al tema centrale di questa riflessione: il turismo di nicchia.
Quello del turismo “di nicchia”, o “esclusivo” è infatti un tema molto dibattuto: da un lato si sottolinea l’importanza dei flussi turistici che vanno ad esplorare delle zone meno mainstream; dall’altro si segnala però che tale turismo è necessariamente riservato a pochi, condizione chiaramente basata su un concetto di costo marginale decrescente delle attività.
Detto in altri termini, se in un luogo arrivano 1.000.000 di turisti, il costo di gestione del singolo turista si stima sia necessariamente inferiore rispetto al luogo in cui di turisti ce ne sono al massimo 10.000.
È però giunto il momento di estendere la riflessione e comprendere un po’ meglio il fenomeno turistico sotto il profilo economico alla luce del nuovo volume di flussi che il turismo coinvolge ogni anno.
In modo pratico: se in una cittadina non c’è un servizio di trasporto pubblico su gomma (autobus) e la cittadina intende sviluppare tale servizio a beneficio prevalente o esclusivo dei turisti, allora è chiaro che il costo di tale trasporto debba essere in qualche modo attribuito alle spese di gestione degli arrivi. Di conseguenza, è altrettanto chiaro che se bisogna comparare il costo di gestione per turista di tale cittadina con quello che invece sostiene una cittadina che già ha un servizio di trasporto funzionante, allora tale costo di gestione risulterà necessariamente più alto.
Da un lato c’è infatti un investimento che viene sostenuto, dall’altro c’è invece una spesa per servizi già in essere, e quindi se sugli autobus di linea, invece di viaggiare 500 persone annuo ne viaggiano 10.500, il costo per tratta viene distribuito su più persone, e questo genera un migliore equilibrio.
C’è un “però”, ed è un elemento molto importante da considerare, perché gli autobus, così come le principali infrastrutture urbane hanno una curva dei costi che non è affatto continua, e questa condizione impone un po’ più di attenzione quando si parla di costo pro-capite di gestione dei turisti.
Senza entrare nei tecnicismi, è chiaro che se ho un albergo con 4 stanze, il costo della struttura resta pressoché invariato se all’interno della stessa ci sono 1, 2,3, o 4 camere occupate.
Se però da 4 voglio passare a 5 non potrò “aggiungere una stanza” (andamento continuo), ma dovrò prendere un altro appartamento (e la curva del costo non sarà una linea crescente, ma sarà più assimilabile ad un “gradino”).
Se questo discorso lo estendiamo a città molto visitate, allora questa dimensione inizia ad assumere dei contorni più netti: il sistema fognario, quello viario, la logistica, i trasporti, le dotazioni immobiliari, le attrazioni culturali, il comparto sanitario: quando i flussi in entrata superano la dotazione infrastrutturale, l’estensione infrastrutturale spesso mantiene una curva del costo come quella di un nuovo appartamento, e questo determina poi l’esigenza di estendere fino a nuova piena capienza l’utenza per rendere tale investimento sostenibile.
Qui c’è il vero nodo della questione. Ad oggi, l’overtourism viene citato in praticamente ogni articolo che riguardi il turismo, da quelli tecnici fino a quelli delle agenzie di viaggio. Eppure, oltre ad indicare, in modo generico, una condizione di sovraffollamento turistico di una città, non c’è una linea che permetta di definire il confine tra quando una città è affollata da quando è over-affollata.
Piuttosto che parlare di overtourism, sarebbe dunque utile iniziare a valutare, in modo più approfondito, quale sia la dotazione ricettiva di ciascuna città, non solo in termini di numero di posti letto, ma anche in termini di utenti massimi dei servizi e delle infrastrutture territoriali.
Determinato questo elemento, sarà allora possibile comprendere se sia possibile o meno e se sia desiderabile o meno estendere la capacità infrastrutturale della città.
Un dato che, per quanto possa risultare del tutto inverosimile misurare in modo esatto, se pur calcolato con un credibile grado di approssimazione, potrebbe sollevare riflessioni be differenti rispetto alla condizione attuale.
Una città che ha 50.000 abitanti e sistemi fognari, viari, sanitari che possono ospitare fino ad un massimo di 150.000 utenti (turisti e cittadini) dovrà decidere se utilizzare il fenomeno turistico per estendere la propria dotazione a 200.000 o se tale estensione sia impossibile o poco desiderabile.
Nel caso in cui tale estensione risultasse possibile e desiderabile, allora si potrebbe avviare un piano di sviluppo urbano, magari sostenuto direttamente da una serie di soggetti pubblici e privati, volto ad incrementare la dotazione infrastrutturale e, contemporaneamente, a potenziare la visibilità e l’attrattività di quel territorio, così da rendere più breve il momento in cui si sostengono i costi degli investimenti e il momento in cui tali costi vengono “spalmati” su un numero congruo tra cittadini e turisti.
Nel caso in cui tale estensione risultasse non possibile o, in alternativa, possibile ma non desiderabile, allora si potrebbero avviare delle strategie più ponderate.
Si potrebbe, ad esempio, stabilire che al di sopra di una certa soglia di visitatori, le attuali infrastrutture di una città rischierebbero di divenire insufficienti o in ogni caso carenti, e che sviluppare nuove infrastrutture potrebbe richiedere un investimento poco efficiente sotto il profilo economico. A quel punto potrebbe risultare addirittura più conveniente creare dei trasporti gratuiti che guidino i visitatori dal centro città alle municipalità più vicine. Così come sarebbe altresì possibile iniziare ad immaginare ad una sorta di “prezzo dinamico” legato alla tassa di soggiorno: all’avvicinarsi di una data soglia di visitatori, la città inizierebbe a richiedere ai viaggiatori last-minute un contributo più alto per la loro permanenza in città, lasciando poi a questi ultimi la scelta di sostenere tale costo aggiuntivo o piuttosto attendere che la soglia massima di turisti ospitabili venga superata, per poi usufruire del servizio di “navetta gratuita”.
Ritornando alle nostre nicchie di mercato, oltre a ricordare quanto importante sia accettare la diversità (del resto se si chiamano nicchie di mercato è perché probabilmente riguardano luoghi ed esperienze che emozionano un bacino piuttosto ristretto di persone), è chiaro quale sia l’obiettivo di questa riflessione: spesso, le nicchie di mercato non vengono adeguatamente sollecitate perché non sono economicamente sufficienti. Ragionando in termini economici più estesi, però, ad esempio, tenendo in considerazione non i costi della singola municipalità, ma quelli legati al territorio regionale, quando non nazionale, forse si potrebbe iniziare a definire una politica di investimento e di “distribuzione” del turismo basata su incentivi economici non solo a chi “propone offerte turistiche”, ma anche a chi “aderisce ad esse”.
Certo, l’indignazione, in tal caso, potrebbe essere ancor più grande: si ipotizzi, ad esempio, che il viaggio verso una data destinazione di nicchia “poco condivisa” venisse addirittura agevolato da denaro pubblico: la questione sarebbe tutt’altro che di piccola entità.
Eppure, favorire un’offerta che “in molti” non condividerebbero, se sviluppata in questo modo potrebbe essere molto più utile ai “molti” che ai “pochi” che vivrebbero davvero questa esperienza.
Ma quale politico attuerebbe davvero un’azione del genere con i rischi che ne deriverebbero dall’opinione pubblica?