Airbnb, cosa c’è da imparare
In un mio recente post su questi pixel ho accennato alla rivoluzione (già in atto) che Airbnb porta nell’ospitalità. Gli hotel di piccole dimensioni e “midscale” (dai 3 stelle in giù, tanto per intendersi) sembrano essere i potenziali “soccombenti”. In questo post vorrei fare una riflessione sulle principali questioni oggetto di dibattito e, allo stesso tempo, azzardare alcune proposte per una sana e serena rivalità tra hotel e alloggi in affitto (B&B compresi).
È solo con la competizione che si favorisce l’innovazione e quindi la capacità del sistema dell’ospitalità di migliorare e di servire meglio la domanda. Inoltre, come cercherò di argomentare tra le righe, leggi e regolamenti il cui unico obiettivo è “proteggere” vecchi equilibri hanno vita breve. Non mi riferisco solo alla “potenza diplomatica” di imprese multinazionali e multimilionarie. Il rispetto delle attuali (obsolete) regole dovrebbe essere garantito da autorità e uffici della pubblica amministrazione con competenze tecniche generalmente non adeguate e budget sempre più esigui. Quanto può durare?
La proposta
In sintesi, vi propongo sei idee per creare un sano ambiente competitivo per “hotel” e “alloggi in affitto”. Se poi vi resta ancora tempo, più avanti potere leggere gli argomenti su cui si basano queste linee.
- Ridurre l’onere “regolamentativo” per i piccoli hotel. A proposito, che ne dite di segnalare gli adempimenti davvero inutili?
- A mio modestissimo parere gli standard minimi ed eventuali marchi di qualità non sono “affari di Stato”, ma dovrebbero essere strumenti volontari gestiti di concerto dalle associazioni di categoria o da organi tecnici. Le autorità pubbliche dovrebbero occuparsi di controlli di ultima istanza per la violazione di regole basilari sulla sicurezza.
- Per questo motivo, è utile prevedere un registro delle imprese e dei privati che intendono svolgere servizi di alloggio. L’iscrizione è in sostanza una licenza a tempo per la quale si potrebbe pagare una “fee” (sotto i 50 euro annui) con la quale finanziare un servizio reclami. Il numero di licenza dovrebbe apparire in tutto il materiale pubblicitario, compresi gli annunci su internet.
- La tassa di soggiorno, laddove è applicata, potrebbe essere “raccolta” tramite le OLTA, Airbnb, ecc. In alternativa, si può mettere una tassa “sui letti freddi”, cioè aumentare il costo della “licenza”.
- Le autorità fiscali, regionali e comunali dovrebbero trovare un accordo sul numero di camere – riconducibili allo stesso gestore – oltre il quale la gestione si assume sia imprenditoriale. La soglia non può essere uguale in tutto il territorio nazionale e neanche uniforme sui territori regionali. Il lavoro e l’organizzazione richiesta dalla gestione di 4 camere in centro a Roma, sono diversi da quello richiesto dallo stesso numero di camere in una località estiva dove la stagione dura 30 giorni.
- I comuni, nell’ambito dei loro strumenti di panificazione urbana, potrebbero prevedere un numero di licenze limitate per isolati o quartieri, facendo attenzione a mantenere un equilibrio tra esigenze di sicurezza, tutela di identità dei luoghi e ingerenza nella libertà di esercizio dell’attività economica. Come si trova l’equilibrio? Mettendo le licenze all’asta nel caso le richieste siano superiori a quelle disponibili. La disponibilità a pagare prezzi molto elevati per la licenza è un segnale che il tetto va rivisto.
L’analisi
- La prima, riguarda l’incolumità delle persone. Per prevenire eventuali incidenti, quindi, si richiedono certificati di agibilità, autorizzazioni sanitarie, certificati di prevenzione anti incendio, ecc.
- La seconda tutela concerne il rispetto di standard minimi di servizio. Per questo motivo esiste la classificazione delle tipologie di strutture ricettive, e quindi i relativi standard e, nel caso degli alberghi, l’attribuzione delle stelle. La necessità di autorizzare l’esercizio, previo il rispetto degli standard, si basa sul principio dell’informazione imperfetta; si assume quindi che il turista nello scegliere i servizi turistici non abbia un’informazione completa, facile da comprendere ed efficiente, cioè il costo per ottenerla è inferiore al beneficio arrecato. Le autorizzazioni e le “stelle” hanno una funzione di “segnalazione”, cioè informano i turisti di aspetti che sarà possibile conoscere solo quando si “consuma” l’esperienza turistica.
Ma è necessario che l’autorità pubblica svolga questa funzione di tutela? La risposta, almeno per quanto riguarda gli standard minimi è, a mio avviso, no! Tripdvisor, Airbnb, le OLTA e tanti altri protagonisti della “social e sharing economy” svolgono, senza un costo aggiuntivo per la collettività – una funzione di garanzia in modo molto più efficace di sistemi tradizionali. Turisti e “mistery guest” valutano 24 ore su 24 ore le camere dove dormono, e sono felici di condividere le loro opinioni con chi verrà dopo di loro.
Quanto costerebbe un servizio pubblico altrettanto efficace? L’obiezione più comune a questa impostazione è la parzialità di questi sistemi. La riposta a quest’obiezione è che la garanzia della neutralità delle recensioni è nella legge dei grandi numeri: quante recensioni “fake” ci sono ogni 100 corrette? Poche, ammettiamolo. C’è davvero chi crede che un impiegato pubblico – che controlla una sola volta le strutture in apertura delle loro attività – sia più efficace di centinaia di turisti che visitano quotidianamente le strutture? Tuttavia, bisogna riconoscere che nelle località turistiche meno frequentate, dove non ci sono grandi numeri, la neutralità potrebbe non essere garantita.
Il punto che si vuole fare è che mentre sulle questioni di sicurezza le autorizzazioni hanno una funzione utile, non si sente il bisogno dello Stato, e quindi di tasse, per garantire standard minimi di qualità. Ci pensa il mercato. Se proprio non si ha fiducia, delle questione dovrebbero occuparsi le associazioni di categoria come succede già in alcuni paesi, quali la Germania o organismi tecnici come succede del Regno Unito.
La disputa sulla concorrenza sleale fa riferimento al fatto che molte camere commercializzate attraverso Airbnb e le OLTA possano essere offerte, a parità di qualità di quelle offerte dagli hotel, a prezzi più bassi perché non si paga l’IVA e la tassa di soggiorno. Inoltre, non si è soggetti a leggi e regolamenti vari che comportano maggiori “costi di produzione”.
Per quanto concerne l’IVA, il tema è la difficoltà a tracciare una linea di confine tra attività saltuaria (non necessario avere la P.IVA) e attività imprenditoriale. In sostanza, fino a che punto molti B&B sono hotel “mascherati”? Poiché il diritto italiano non offre chiarezza in merito, né le autorità fiscali hanno precisato cosa distingue un servizio gestito professionalmente da uno saltuario nel campo dei servizi di alloggio, è opportuno valutare la soglia di fatturato sopra la quale l’apertura della partita IVA e lo svolgimento di un’attività imprenditoriale sia conveniente. Secondo l’ANBA, che ha condotto uno studio basato sui maggiori costi derivanti dalla gestione della contabilità IVA, la linea di demarcazione sono 10.000 EUR. Ammesso che sia la soglia giusta, come si fa a capire chi sta dentro o sopra l’asticella? Nella prassi (di alcuni paesi) si stabilisce un numero massimo di camere e di giorni di apertura oltre i quali l’esercizio é considerato imprenditoriale.
E la tassa di soggiorno? Anche in questo caso ci sono metodi e strumenti per superare il problema. Il primo è stabilire accordi con Airbnb e le OLTA in modo tale che siano le stesse agenzie a incassare le tasse. Il secondo metodo è legare l’autorizzazione all’esercizio al pagamento di una “tassa” annuale fissa di esercizio che abbia un valore tale da non scoraggiare in partenza il pagamento della stessa.
Sui maggiori costi di produzione derivanti dall’eccesso di regole, la riflessione più interessante l’ha avanzata Federico González Tejera, CEO di NH Hoteles, che afferma come a fronte di un giusto abbassamento delle barriere all’entrata per chi affitta casa, dovrebbe corrispondere una riduzione degli adempimenti per gli hotel.
Un terzo ordine dei problemi riguarda la sicurezza e il quieto vivere dei residenti, come la “protezione dell’identità dei luoghi”. Sui giornali si cominciano a leggere cronache di residenti che lamentano che il proprio stabile è diventato un posto invivibile. Il fenomeno sembra però essere circoscritto alle grandi città turistiche. Per questo motivo, e al fine di evitare che i quartieri di una città diventino “troppo turistici”, in alcune luoghi, come ad Austin, in Texas, è previsto che l’affitto turistico sia associato a una licenza; le licenze hanno un tetto per quartieri e zone censuarie.
Un’ultima questione riguarda il mercato degli affitti. Secondo le autorità di NY, airbnb “toglierebbe” dal mercato dell’affitto normale migliaia di appartamenti, producendo così un aumento del prezzo medio dell’affitto. In realtà, su questo punto non c’è una chiara evidenza e in ogni caso, se il fenomeno esiste, sarebbe confinato nelle grandi città, dove i prezzi alti degli affitti dipendono comunque da una bassa offerta abitativa nelle aree più richieste.
Insomma, non ci sono ragioni solide per conservare. Meglio innovare.