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Nell’ultima puntata della nostra serie, nel domandarmi se le DMO fanno la cosa giusta, ho sviluppato un ragionamento che mi ha portato a due conclusioni. Prima: non limitiamoci a considerare come DMO solo le istituzioni formali (enti turistici, STL, ATL, ecc.), ma anche tutti i network organizzati o spontanei che operano in una destinazione turistica. Seconda: un network è una DMO se ha la capacità di incidere su almeno uno dei fattori di competitività della destinazione turistica. Oggi ci occupiamo del più discusso tra questi fattori, il brand. In questo breve spazio, cercherò di fissare alcuni punti essenziali per comprendere cosa si intende per brand, cosa possono fare le DMO per “gestirlo”, se e come si possono misurare gli sforzi di gestione delle DMO.

Cosa è il brand di una destinazione?

Il brand non è né il logo della destinazione o della DMO, né lo slogan. Il brand è una storia, un set di emozioni e di aspettative da parte dei turisti (o dei potenziali turisti). In altri termini, il brand è tutto quello che i turisti pensano (reputazione) e sentono (in termini di sentimenti) di una destinazione. Che il brand (o l’immagine competitiva) di un luogo sia un fattore competitivo, cioè incida sulle decisioni di investimento, di visita, come anche di residenza, è un fatto assodato sul quale non si registrano voci dissonanti. Il Reputation Institute ha addirittura quantificato l’influenza del “brand di una nazione” sulla spesa turistica internazionale: un aumento del 5% della reputazione turistica di un paese (misurata con il modello sviluppato dallo stesso Istituto), porterebbe ad un aumento delle entrate valutarie di quel paese di circa il 10-12%. Si tratta ovviamente di stime e di metodi discutibili, ma l’importanza del brand sulla competitività di un luogo è fuori discussione. Quello che invece è in discussione (e che discussione) è il fatto che il brand di un luogo possa essere influenzato dalle campagne di comunicazione. In altri termini c’è chi crede che il place branding funzioni, c’è chi, invece, ritiene che sia inutile. Per inquadrare la discussione in uno schema che oggi va di moda: il brand è la storia, il place branding è lo “storytelling”.

Si può gestire il brand di una destinazione?

La mia posizione è la seguente. Come ho accennato nel post precedente, considero il brand come un elemento che compone il puzzle del capitale turistico; in altri termini la relazione emotiva tra (potenziali) turisti e destinazione si forma nel tempo e improbabilmente può essere modificata nel breve periodo da apposite campagne di comunicazione. La comunità scientifica non è ancora riuscita a produrre uno studio convincente che dimostri l’efficacia della comunicazione prodotta dagli enti turistici nel modificare quello che i turisti pensano o sentono rispetto ad una destinazione. Tuttavia, la storia (brand) può cambiare, a volte anche repentinamente, perché cambiano i fatti su cui si basa la storia. Faccio riferimento ai fatti di cronaca (politica, nera, di guerra), ai fatti culturali (ad esempio una serie di mostre in una città, un nuovo museo che fa parlare), ai fatti architettonici (la riqualificazione del centro storico, il rinnovamento di un quartiere), ai fatti industriali (Volkswagen), ai fatti della moda, ai fatti atmosferici, e la lista potrebbe continuare. Con questo intendo dire tre cose:

  • Il brand è prima di tutto una questione di fatti (eventi, prodotti, persone, i tratti delle persone, lo spirito di un paese, ecc.) che fanno la storia (o le storie). Alcuni di questi fatti fanno più storia di altri. Alcuni possono essere controllati o influenzati dalla comunità (di una destinazione turistica), altri sono fuori controllo.
  • I fatti non fanno la storia, a meno che non siano raccontati. Quindi, la buona notizia è che il place branding ( lo storytelling) non è inutile se ci sono storie da raccontare ed enfatizzare.
  • Internet e i social media hanno cambiato le regole della comunicazione. I racconti che hanno più peso, che sono più ascoltati e sentiti, non sono generati dalla pubblicità o dalla comunicazione delle DMO, ma da altri turisti, da altri media, dalle OTA, dai tour operator, dai blogger, dai giornalisti, da un film, insomma dagli “altri”.

Il ruolo chiave delle DMO è quindi quello di influenzare i fatti e il racconto dei fatti. Facile a dirsi, davvero titanico a farsi. Tanto per cominciare, le DMO dovrebbero cominciare dalle basi; scegliere i mercati sui quali si intende investire, segmentare il mercato e analizzare e monitorare l’immagine competitiva della propria destinazione turistica sui segmenti target. In parole povere, una destinazione turistica che intende attrarre i pensionati tedeschi e non può permettersi una ricerca di mercato, deve almeno individuare chi sono i market makers (chi distribuisce e vende) e gli opinion makers (chi crea i sogni delle vacanze dei pensionati), stabilire una relazione stabile con loro e farsi raccontare chi sono questi pensionati, quali i loro sogni, le vacanze ideali, le loro bucket list, dove vanno in vacanza adesso, dove potrebbero andare, cosa pensano della vostra destinazione, ecc. Ovviamente, se il vostro target è il giovane freak internauta, allora potete affidarvi a tutte le app e i software del momento che indagano sentiment e tutto quello che ci gira intorno. Bottom line, conoscere in generale cosa pensa il mercato filtrato da internet della nostra destinazione è interessante e importante, ma non basta. Bisogna segmentare (e come sapete dietro un IP ci sono molti segmenti) e a volte, scendere sul campo, cioè andare off-line.

Una seconda cosa che le DMO possono fare è mettere in pratica il concetto di fare sistema nella narrazione delle storie e dei fatti che già contraddistinguono la destinazione.  Si tratta di creare alleanze con i settori produttivi e culturali per decidere su quali storie puntare e che tipo di racconto fare emergere. Attenzione: non intendo il raccontare che abbiamo “i mari, i monti e la cultura”. Intendo che, a partire dalla percezione che il mercato target ha di noi, bisogna enfatizzare elementi già noti, e rafforzare altri meno noti, ma sempre presenti nell’immaginario del mercato. Il punto di partenza non è l’identità locale, come spesso sento dire nei convegni sui territori, ma la testa e le emozioni delle persone che vogliamo fare diventare turisti dei nostri territori.

Un terzo ambito di azione delle DMO, sempre appartenente al genere fare sistema, è influenzare la creazione di fatti di cui parlare. Mi riferisco a piccole cose, come la realizzazione di un club di prodotto per dare standard di qualità comuni tra una rete di operatori (che può portare ad incrementare le recensioni positive). Ma mi riferisco anche a grandi cose, come l’operazione Guggenheim e la riqualificazione urbana di Bilbao che ha portato sulla mappa turistica che conta una città prima poco nota. Una destinazione deve continuamente creare le occasioni per far parlare di sé.

Si può misurare l’influenza delle DMO sul brand della destinazione?

La risposta è si. Un primo modo, indiretto, è parlare con il management e capire se e fino a che punto il brand è valutato e monitorato. Se la risposta non è soddisfacente, allora è molto probabile che la DMO stia agendo più in modalità “copy and paste”, che non secondo una strategia sensata.

Un secondo modo è valutare la capacità delle DMO, soprattutto di lobby e di network leader, di fare accadere fatti che possono diventare storie da raccontare. Attenzione: qui non mi riferisco all’ottenimento di un finanziamento pubblico o privato per realizzare un evento, un’opera o un’infrastruttura. Mi riferisco all’evento realizzato e di successo, ad un’opera che serve, in generale alla capacità delle DMO di generare un lavoro ben fatto; il punto qui è comprendere fino a che punto le DMO concorrono al lavoro ben fatto.

Un terzo modo è valutare la capacità di fare raccontare le storie della destinazione. Qui siamo nel campo del normale core business delle DMO. L’efficacia delle azioni di promozione di una DMO non si misurano tanto nella capacità di stabilire contatti (awareness), né di suscitare risposte meccaniche, ma nella capacità di innescare pensieri, parole e sentimenti positivi sia nei turisti attuali, sia nei turisti potenziali, sia nei media e, infine, dei market maker.

Visto che la comunicazione è ad oggi l’attività più importante svolta dalle DMO (e spesso anche l’unica), ho ritenuto opportuno corredare il post con una tabella che riassume alcuni indicatori per misurare l’efficacia dei racconti turistici. Nella tabella, nelle righe, ci sono i target della comunicazione turistica delle DMO: oltre ai turisti potenziali, ho inserito tre tipologie di influencer , cioè persone e operatori che ne possono influenzare pensieri, desideri e decisioni. Nelle colonne, ho evidenziato tre tipi di influenza: da quella minima, cioè farsi notare (Awarness), a quella più importante per una DMO, cioè convincere un influencer a diventare uno sostenitore della destinazione turistica (Advocacy).

In sintesi, nella battaglia per entrare nella testa e del cuore dei potenziali turisti, nella mia modesta esperienza, una destinazione si guadagna la sua reputazione se sa fare le cose per bene e si conquista influencer che ne parlano bene. Alle DMO il ruolo di catalizzatore di iniziative finalizzate a questi obiettivi. Agli operatori turistici il ruolo di protagonisti che, tra le tante cose, vuol dire anche valutare se le DMO fanno bene il loro mestiere. A questo post il compito di fornirvi alcuni parametri e spunti per valutare cosa fanno le vostre DMO per influenzare il brand delle vostre destinazioni.

Tabella_DMO_2

Foto di copertina: MaxPixel (1)

Antonio Pezzano

Antonio Pezzano assiste enti pubblici e organizzazioni turistiche a disegnare e attuare politiche e progetti che creino valore economico. Il suo ruolo é fornire dati e fatti concreti a chi prende le decisioni. E’ stato per conto della Commissione Europea coordinatore della rete di destinazioni turistiche europee di eccellenza EDEN.

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Antonio Pezzano

Antonio Pezzano assiste enti pubblici e organizzazioni turistiche a disegnare e attuare politiche e progetti che creino valore economico. Il suo ruolo é fornire dati e fatti concreti a chi prende le decisioni. E’ stato per conto della Commissione Europea coordinatore della rete di destinazioni turistiche europee di eccellenza EDEN.

5 Comments

  • Sergio Stumpo ha detto:

    Molto interessante. Mi occupo di dinamiche economiche legate allo sviluppo del turismo da 18 anni e devo complimentarmi per la analisi complessiva.
    La domanda alla quale sto cercando di dare risposta da tempo è relativa alla misurazione degli indici interni all’ecosistema della Destinazione. Si è a lungo parlato di Governance, ma quali sono gli strumenti a disposizione per decidere?

    • Antonio Pezzano ha detto:

      Gentile Sergio, grazie per gli apprezzamenti. Potrei chiederti un chiarimento sulla domanda. Nello specifico a cosa ti riferisci?

  • Silvio Labanca ha detto:

    Ho letto tutte le puntate della saga DMO e condivido molte delle analisi riportate.
    Non concordo sul fatto di considerare DMO anche un ufficio comunale con un addetto, ad esempio…
    In una di queste chiedevi se fosse davvero necessario per una destinazione turistica dotarsi di DMO. Quanto da te scritto in seguito accredita ancora di più la mia risposta: si, è necessario (se con quella M intendiamo Management). Dato per scontato che la tendenza in atto è questa, si ripropone – tra gli altri -lo stesso problema delle formule precedenti (EPT, APT, STL..): quali sono i confini del territorio da considerarsi destinazione e quindi da includere nella “gestione”? La località, il comprensorio, la valle, la regione? I confini potrebbero essere quelli già definiti dal mercato, dal brand, dall’immaginario dei turisti, ma se la prospettiva (che comprende la capacità di fare lobbying) è diversa? Hai a disposizione dati sull’efficacia delle diverse tipologie di DMO?
    Saluti

    • Antonio Pezzano ha detto:

      Ciao Silvio, grazie per il commento.
      Concordo con la tua risposta (si c’è bisogno di Management), anche se andrebbe qualificato meglio. A questo tema e ai temi che sollevi con le tue domande cercherò di fornire qualche risposta al BTO. Come aperitivo ed in estrema sintesi:
      1. Non credo nel classico modello di DMO, dove c’è un’organizzazione che fa tante cose. Su questo punto ti invito a considerare le analisi e le proposte di Beritelli, Reinhold, Laesser e Bieger. In sostanza, prima capire dove c’è bisogno di uno sforzo collettivo che porti concretamente valore aggiunto alle imprese turistiche, dopo valutare le basi geografiche e organizzative di tale sforzo.
      2. Purtroppo non esistono dati sulla efficacia delle DMO in quanto tali. Esistono dati (molto opinabili) sull’efficacia di singole iniziative (spesso di comunicazione), ma a livello di DMO di Stati (in USA, in Nuova Zelanda, in Canada). Su questo tema basta digitare su google le parole ROI tourism impact marketing destination e troverai molte informazioni.
      Grazie ancora e invito te come altri nostri lettori anche a commentare i punti sui quali c’è diversità di opinione. Io non ho vedute scolpite nella roccia e il dibattito aiuta a capire meglio.

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